SAN TERENZO AL MARE
Analisi storiografica del toponimo.
Il borgo di San Terenzo al Mare è paredro con il borgo di San Terenzo ai Monti, perché collegato con la storia del monaco irlandese che sarebbe stato martirizzato appena sbarcato nel nostro territorio. Il suo corpo, preteso da molti, fu caricato, secondo la leggenda, su un carro da buoi e sarebbe stato sepolto nel luogo ove i buoi, stremati, si sarebbero fermati. Si dovrebbe quindi ipotizzare che il luogo dello sbarco sarebbe stato San Terenzo al Mare e il luogo della sepoltura San Terenzo ai Monti. Nelle “Iscrizioni del Golfo della Spezia” del Falconi si legge in proposito:
“A Sarzana, nel Palazzo Vescovile, scritta sotto l’effigie di S. Terenzio:
S.TERENTIUS
APOSTOLORUM LIMI-
NA INVISURUS AD FLUMEN
AVENTIAE A PRAE-
DONIBUS INTERIMITUR”.
Nel Tomo I della “Storia Ecclesiastica della Liguria” di P.Pietro Paganetti, alla pagina 386 si legge:
“S.TERENTIUS EPUS LUNEN ET MARTYR
DE QUO NULLA ALIA EXTAT MEMORIA APUD NOS
NISI DUO CASTRA IN NOSTRA PROVINCIA
QUAE NOMINE SANCTI ISTIUS
NOMINANTUR
Nella storiografia della Diocesi di Luni il vescovo Terenzio è citato nel 556. Sarebbe originario della Lunigiana, perché i Terenzi sono famiglia citata come presente nella Luni romana. Il suo nome appare in una epistola di Papa Pelagio I del 559, indirizzata ai vescovi separati della Tuscia Annonaria, come uno dei due vescovi più restii a rientrare nella comunità. Il San Terenzio, patrono di Pesaro, apparterrebbe invece a secoli precedenti, perché, proveniente dalla Pannonia (Ungheria) sarebbe stato martirizzato per la sua fede cristiana nel 251, presso la fonte detta <aqua mala>, un’acqua sulfurea sgorgante vicino la Badia di San Tommaso in Foglia, fra Pesaro e Urbino.
Ipotesi di frequentazione umana del territorio in epoche preistoriche.
Il toponimo Falconara, assieme al toponimo Monte Castellano, cioè <castellaro>, ed al toponimo “Monte do Sogio” di Pitelli, cioè Monte del <solium>, il sedile del sacerdote “augure”, denotano la presenza di un luogo dedicato a sacrifici guidati dal volo degli uccelli rapaci, come narrano le Tavole Eugubine, cioè il testo liturgico dell’Occidente europeo, corrispondente ai libri del Levitico e del Deuteronomio della Bibbia. I voli degli uccelli dovrebbero essere stati molto ricchi di specie volatili, perché interessati dal collegamento del mare con le retrostanti paludi degli Stagnoni. Una prospezione sull’altura del Monte Castellano potrebbe fornire la prova della frequentazione preistorica del sito. Il toponimo Pitelli, derivante dalla voce “puplitelli” delle Tavole di Gubbio, è rimasto tale in un documento normanno della Daunia (in loco ubi dicitur puplitelli pertinenciis Sancte Agathe – documento L, anno 1186) citato dal Maruotti nel suo libro “Italia sacra preistorica”, mentre qui da noi si nota una caduta della sillaba iniziale.
La prima documentazione del toponimo.
Nel Codice Pelavicino si può ritenere come decisamente attribuibile a San Terenzo al Mare la seguente citazione, che appare alla pagina 516 del Regesto del Lupo Gentile, documento N° 493 anno 1218, indizione 6, del mese di marzo:
“…et usantiis vel consuetudinibus quas domini de Treblano debent habere in hominibus habitantibus infra districtum Amelie et de apportu piscium qui infra districtum et curiam de Trebiano a quibuscumque personis capiuntur, a capite sancti Terencii citra, accipiendo…”
ed ancora a pagina 517: “…at ut nuncios ep.lun. apportum piscium accipere usque ad S.Terencium permittant, et non inquitent…”, mentre si può considerare egualmente credibile l’altra descrizione alla pagina 377 dello stesso Regesto, documento N° 398 del 1271, agosto 12, indizione 13:
“et omnia alia sua iura tam incorporalia quam corporalia que et quas et quos habet et habere usus est solitus in curia et territorio Trebiani, Ilicis et S.Terencii…”.
Le altre citazioni si debbono pensare relative a San Terenzo ai Monti.
Nel manoscritto “Storia di Lunigiana” del lericino Canonico Gio Batta Gonetta, conservato presso la Biblioteca Civica “Mazzini” della Spezia, alla pagina 55 si legge:
“Vuolsi che Gualtiero vescovo di Luni nell’881 a Portiolo costruisse la chiesa di San Terenzio, da cui poi il nome di Santerenzo al paese sorto su quella spiaggia del Comune di Lerici”. Lo stesso canonico, nel “Saggio Istorico Descrittivo della Diocesi di Luni” scrive che sia Solaro sia San Terenzo prendono nome di santi cui erano titolate le loro antiche chiese.
Secondo il Canonico arcolano Alessandro Centi, San Terenzo fu fondato come Colonia genovese nel 1112. Tale deduzione deriva dal documento del “Liber Curium” della Repubblica di Genova, Tomus I, stampato ad Augustae Taurinorum, ex Officina Regia, anno 1853, documento 179, colonna 161. Vi si rileva come in Porto Venere “alcuni signori di Arcola vendono cinque parti del Monte di Lerici al Comune di Genova. La Repubblica di Genova veniva così a costituire in modo legale il suo dominio sopra la sponda orientale del Golfo di Spezia, di rimpetto alla Colonia di San Terenzo, che essa aveva stabilito sulla sponda opposta circa quarant’anni prima. Questo afferma lo storico Giorgio Stella; e aggiunge che il Monte di Lerici acquistato allora è quello sul quale poi venne costruito il Castello”. Nel libro dell’Ambrosi “Lerici” si fa riferimento a culti ariani nella parte alta di San Terenzo ed a culti cattolici nella fascia costiera. Terenzio, cristiano proveniente dalla Scozia, venne eletto vescovo di Luni e morì durante una missione di evangelizzazione. Nelle carte trascritte dal Falco il nome di Santerencio si trova in un atto del 14 aprile 1260, riportato alla pagina 165, nei documenti dell’Archivio di San Venerio del Tino, a proposito di certe ragioni di una conversa di nome Aidelina.
In trascrizioni successive il toponimo si ritrova come “Sanctorentio Potestate Illicis” (1500) o come
“Sanctorentio Villa Illicis” (1504), mentre altre volte viene abbreviato come “S°Arenzo”, “S°Erencio” o “Santo Herenzo”.
La Romanità.
Non si rinviene nessuna informazione su questo periodo. Resta però di grande importanza l’affermazione del poeta Aulo Persio Flacco, che nelle Satire (VI, 6, 10) scrive:
“Mihi nunc Ligus ora intepet hibernatque meum mare qua latus ingens dant scopuli et multa litus se valle receptat. Lunai portum est operae conoscere cives cor iubet hoc Ennii”.
Si ritiene opportuno riportarne la traduzione perché aiuta a riconoscere come il “Portus Lunae”, descritto da Strabone, sia da considerare il golfo della Spezia:
“Per me vi sono ora i tepori della ligure spiaggia e l’inverno del mio mare, dove gli scogli formano un ampio fianco e il lido s’inarca in profondo seno. Venite a visitare il Porto di Luni, o cittadini, ne vale la pena. A ciò esorta il cuore di Ennio”.
Il giovane poeta Persio, di nobile e ricca famiglia, nativo di Volterra, possedeva evidentemente una delle ville romane del Muggiano, luogo ricco di acque, anche termali, e quindi poteva descrivere bene la profondità visiva del golfo. Sulla profondità dei pescaggi sovviene Strabone, ma anche bastano le attuali batimetriche, mentre per quanto riguarda approdi o lagune interne nell’estuario della Magra non si possono fare eguali affermazioni (Strabone infatti parla di “molte rade tutte molto profonde”) perché il poeta Lucano (Fontes Ligurum, pag. 308, nota 1067) scrive .
“…nullasque vado qui macra moratus alnos vicinae procurrit in aequora Lunae” che viene tradotto così:
“…il Magra che fluisce nel mare della vicina Luni non può contenere navi di ontano” in quanto le sue acque non sono profonde a sufficienza.. Infatti il legno di ontano pesa circa 500 chilogrammi per metro cubo. Perché non pensare che i ricchi romani non raggiungessero la spiaggia di San Terenzo, per dilettarsi di quelle sensazioni (dovute alle interazioni geomasse-biomasse procurate dalla quarzite rosa del promontorio) che David Herbert Lawrence ha descritto? Nella lettera inviata a Henry Savage, pubblicata dall’editore Heineman in Londra, scritta da bordo del vaporetto “Unione Operaia”, si legge infatti:
“È un meraviglioso mattino, con un grande, piatto, massiccio mare blu e strane vele lontane, con una profonda luminosità di perla, e San Terenzo tutto scintillante di rosa sulla spiaggia. È così bello che fa quasi male”.
Il Medioevo.
Poche sono le informazioni raccolte dalle fonti di archivio. Sembra però logico supporre che, a fronte delle continue razzie dei Saraceni, il borgo sia potuto sorgere dopo che le flotte riunite di Genova e Pisa abbiano potuto liberare la Sardegna e la Corsica dalle basi dei temibili predoni (i Saraceni distruggono Luni nel 1016). Rafforza questa ipotesi la costruzione della chiesa di San Lorenzo al Caprione (sec. XI-XII) in una valletta non visibile dal mare. Soltanto dopo la rovina di detta chiesa, costruita su faglia (quindi condannata ad aprirsi), si ebbe il trasferimento della liturgia nell’altura di Pugliola, certamente visibile dal mare, perché il pericolo era ormai passato (le lapidi presenti in questa chiesa portano date della fine del 1300). Oltre alla pesca, di cui si ha la documentazione nelle pergamene del Codice Pelavicino sopra citate, ed ovviamente all’agricoltura, favorita dalla notevole presenza di acqua (come dimostrano i toponimi Bagnola e Bagnara) si riscontra presenza di traffici marittimi. Il Poggi documenta che nel 1268 un carico di trenta “metrete” di vino parte da San Terenzo per Bonifacio, col nolo di 20 denari per metreta. Ciò conferma l’esportazione di surplus alimentari di buona qualità, dovuti ad una agricoltura specializzata nella coltivazione della vite, che doveva aver dato luogo alla fama del vino di Mongiardino, la attuale zona di Pozzuolo. Della presenza di queste colture specializzate nel golfo della Spezia sovviene l’episodio del 1165 in cui la flotta pisana attacca Porto Venere con venti galere, ma non riesce ad espugnarlo, per cui si rivolge verso la Palmaria e verso Marola distruggendovi tutte le vigne. Sembra logico supporre che anche la coltivazione dell’olivo fosse presente, perché l’episodio della ruberia del carico di olio pisano destinato alla esportazione verso i Saraceni, avvenuta nel 1222, denota una fiorente corrente commerciale di scambio di merci pregiate, da una parte l’olio, dall’altra le spezie e lo zucchero di Babilonia e di Cipro. Si noti come il poeta Persio, nella Quinta Satira, accenni già a scambi “con merci italiche di rugoso pepe e granelli di cumino che inducono al pallore”. Sulla solidità di questa coltura specializzata, insegnata agli uomini dalla Dea Atena, in tempi successivi, si hanno le affermazioni del Petrarca, scritte sia nel poema “Africa” sia nelle “Lettere Famigliari”, in particolare nella Lettera da Valchiusa del 23 aprile 1347, in cui il poeta descrive la qualità dell’olio di oliva “vergine” spremuto a freddo, della nostra riviera. Questa libertà di commercio di merci pregiate degli uomini della costa doveva preoccupare Genova, perché nel 1270 il governo di Genova impegna i Lericini a non navigare in alto mare, se non partendo da Genova. Questo gravame di politica economica era già stato emanato dal Ducato di Venezia nel 1228, con l’obbligo di tutte le navi mercantili naviganti a nord di Ancona di convergere nel porto di Venezia.
Il ciclo carolingio a San Terenzo.
Si deve al Centro Etnografico Ferrarese l’apertura di uno studio a livello nazionale e internazionale sull’immaginario collettivo legato al paladino Orlando. L’immagine di Orlando è quella di un uomo forte e coraggioso, quindi un concetto reale che prescinde dal concetto di esistenza e di verificabilità
storica del personaggio L’immaginazione popolare, dopo essere stata contaminata dal giudizio di valore, ne ha identificato nel territorio alcune rappresentazioni estetico-formali dovute alla natura dei luoghi (soggetto primario) e le ha memorizzate come icone, generando leggende (soggetto secondario) che appartengono alla antropologia locale. Se una conformazione geologica, rappresentata da una fessurazione profonda, esiste in un territorio, ecco sorgere nell’immaginario collettivo che quella fessurazione è stata creata in passato dai fendenti della Durlindana di Orlando. Ciò è successo sia in Sardegna, per la fenditura di Capo Sant’Elia (Cagliari) sia a San Terenzo per lo “Scogio d’Orlando”. Questo scoglio deriva da una grossa parte di parete a forma rotonda, franata a mare e spezzatasi con una perfetta linearità. L’immaginario poietico dei Santerenzini (lo spirito che crea) ha determinato un mito eguale all’immaginario poietico di popolazioni marittime cagliaritane. Questo elemento è stato inserito in una rete di fenomeni analoghi, legati a forme eccezionali, e così si è creata una mostra itinerante a livello internazionale, denominata “Sulle orme di Orlando” per collegare luoghi che hanno mantenuto nel loro “genius loci” la memoria di un cavaliere del tempo di Carlo Magno, forte e puro, matto quanto basta per essere glorificato come un divo, dando vita ad un capolavoro, quale appunto l’<Orlando Furioso> dell’Ariosto. Ciò è avvenuto in contesto mediterraneo, fra terra e mare, che mantiene contemporaneamente la memoria delle Crociate. Non per niente a San Terenzo esiste una tradizione familiare per cui nel trasporto funebre al cimitero di un maschio di famiglia, veniva posta sul cataletto la croce d’argento di un antenato che aveva partecipato ad una crociata! Non per niente si ritrova un appellativo, un soprannome, che così suona: “quei dae bale sante”. A San Terenzo si mescolano tracce della Chanson de Roland e dell’<Orlando Furioso>. Il tema del racconto non è solo ispirato alla cavalleria, all’eroismo per la difesa della fede, con il disprezzo della paura di morire, ma anche ad altri interessi di potenza, in questo caso sessuale. Nel testo “Il viaggio di Carlomagno in Oriente” nella lassa XXVI, si legge che Orlando chiese al fido Olivieri: “Olivieri, dite il vostro vanto”. Questi rispose: “Volentieri se Carlo lo consente. Il re prenda sua figlia, che ha capelli tanto biondi, ci metta in camera sua, da soli in un letto: se io, stanotte, per sua testimonianza, non la possiedo cento volte, mi si tagli la testa domani, giuro che consento”. Il numero cento è importantissimo nell’immaginario collettivo, e non solo in quello. In una specie di continuità fra la memoria di cavalieri laici e cavalieri templari, che può essere stata determinata dal fatto che la Sesta Crociata partì da Porto Venere e da Marsiglia, può trovarsi una medesima numerologia. Nella “Regola del Tempio” del 1128, all’articolo III, denominato “Che cosa fare per i fratelli defunti” si legge: “I fratelli ivi presenti, che pernottano pregando per la salvezza del fratello defunto, dicano cento orazioni del Signore [il Padre Nostro] fino al settimo giorno”. Certo non si può trovare altrettanta analogia per il rapporto con la femminilità, e soprattutto con la carica energetica del corpo femminile, perché l’articolo ultimo della Regola, il LXXII , così è titolato: “Si evitino i baci di tutte le donne”, e recita come di seguito: “Riteniamo pericoloso per ogni religioso fissare lungamente il volto delle donne; perciò un fratello non osi baciare né una vedova, né una nubile, né la madre, né la sorella, né un’amica, né nessuna altra donna. Fugga dunque la milizia di Cristo i baci femminili, attraverso i quali gli uomini spesso sono in pericolo: così con coscienza pura e vita libera può perennemente conversare al cospetto del Signore”. Questo confronto è particolarmente interessante in senso antropologico, perché San Terenzo apparirebbe come un sito legato più a cavalieri laici, visto che vi si rinviene il cognome “Basadonne”! Non è però pensabile che la presenza della matità di Orlando arrivasse a dar fuoco alle case, come si percepisce dal cognome “Brusacà”, perché questo cognome deriva dal nome germanico Brusik, che si ritiene possa esser appartenuto a soldati svizzeri, acquartierati a lungo a Sarzana. Infatti nella chiesa di San Francesco di questa vicina città si rinviene una rara lapide, incisa in Latino ed in lingua germanica, a ricordo della sepoltura del comandante di questa guarnigione. A rafforzare la tradizione carolingia, oltre al toponimo Monte d’Orlando, di cui finora non si conoscere la ragione, è emersa la presenza di cinque toponimi finora inediti, che sono contenuti in carte dell’Archivio di Stato della Spezia, indicate come “Catasto del 1690”, ma che meglio sembrerebbero da attribuire al 1609, e che costituiscono un vero tesoro toponomastico legato alle “Orme di Orlando”, e cioè i toponimi “Vale de Lanciloto” e “Vale de Lanzeroto”. Questa scoperta offre ulteriore conferma alla attendibilità degli scritti del Canonico Gonetta circa i modi di dire di Lerici. Egli infatti riporta il detto “testa di Baiardo”. Baiardo è il cavallo baio del Paladino Rinaldo, cavallo dotato di qualità straordinarie, capace di partecipare attivamente alla battaglia, capace di allungarsi per portare tutti quattro i figli del Cavaliere Aimone, capace addirittura di intelligenza simile all’uomo. Esiste quindi un legame antico fra la memoria orale di Lerici e la documentazione scritta di San Terenzo, che potrebbe spiegarsi con la permanenza nel seno del Cesino, o di Pertusola o del Muggiano, del “portu maris Centum Clavium” cioè del porto ricco di sorgenti d’acqua, con il piccolo porto dell’Ospedale di Cento Chiavi, con annessi bagni termali, come risulta dal documento del 27 giugno 1245 del Registrum Vetus del Comune di Sarzana:
“portu maris Centum Clavium, et Plagiis, et Arenis, et Lapidibus in dictis plagiis et confinibus, et de iurisdictione dictorum locorum et de portulo hospitalis Centum Clavium et balneorum in dicto portu existentium”.
La lastra fotografica del 1880, in cui si può scorgere il piccolo porto annesso all’Ospedale di San Leonardo, di attribuzione templare, poi passato all’Ordine di Malta, è stata pubblicata nel libro “Lerici, la storia in fotografia”, Volume Primo. Vi si scorge anche una torre da guerra con finestre arciere. Il Gonetta, nel manoscritto inedito “Storia di Lunigiana” a pagina 168, cita che nel 1380 è sorta una questione fra Andrea, Sindaco del Comune Arcola, ed il rettore dello Ospedale di San Leonardo di Cento Croci, rappresentato da un Perfetti di San Terenzo, in quanto detto ospedale era debitore di uno staio annuo di grano verso la comunità di Arcola (“facea finire et refutantiare et omnimodum de omni jura ratione et actione” di un annuo staio di frumento del quale sino allora quell’Ospitale era andato debitore ad essa comunità).
Lo scritto è importantissimo perché lega San Terenzo all’Ospedale della Stazione Navale dei Templari (o degli Ospitalieri?) detta de Fenoclaria e fornisce ragione del legame con Arcola, perché il territorio apparteneva prima ad Arcola e poi fu venduto a Sarzana. Il successivo documento del 28 gennaio 1255, conservato nel Fondo Roncioni dell’Archivio di Stato di Pisa, riporta che il Maestro di tutte le Stazioni Navali dei Templari era fra Dalmatio de Fenoclaria! Non ci si deve stupire dell’uso del doppio toponimo Cento Chiavi-Cento Croci perché l’uno è di derivazione latina e sta ad indicare la presenza di cinque diverse sorgenti, fra cui una di acqua arseniosa che fece ammalare l’equipaggio di una galera dell’Ordine di Malta, mentre l’altro è di origine celtica e sta ad indicare “passaggio in alto fra i massi”, come gli altri Cento Croci della nostra provincia, e va collegato con il toponimo “Oca Pelata”, di origine ancora più antica perché derivante dai Paleo-umbri. Infatti ocar è un luogo alto fortificato, corrispondente all’arx latina, in cui si facevano preghiere ed offerte alla divinità, ad alta voce (lemma umbro pihatu, da cui poi il nome di persona Pilato ed il nome di diversi Monte Pilato, in Italia ed in Svizzera).
San Terenzo e la tecnica del controfuoco nel golfo della Spezia.
Con l’utilizzo della nuova invenzione della polvere pirica nell’arte della guerra (1340) tutta la architettura militare ha subito profonde trasformazioni. La costruzione del castello di San Terenzo risponde alla necessità di difendersi dal tiro delle artiglierie navali, più maneggevoli, sempre più moderne di quelle issate sugli spalti delle battagliole o dei castelli o dei rivellini, perché le potenze marittime dominanti sul mare disponevano di maggiori risorse economiche. La nave infatti si avvicinava alla fortificazione terrestre, faceva sì che da questa si sparasse qualche colpo, misurava la lunghezza di tiro, quindi si ancorava più al largo e iniziava il cannoneggiamento senza essere raggiunta dalla portata inferiore delle artiglierie terrestri. Sorse così l’avvedutezza, da parte delle autorità militari del territorio, di creare una rete di batterie che costringesse le navi a stare al largo e a non poter attuare la suddetta tecnica. La costruzione del castello di San Terenzo risponde quindi alla necessità di far restare al largo le navi attaccanti, senza poter sbarcare sulla spiaggia e magari trasportare pezzi di artiglieria per colpire le fortificazioni terrestri da lati non difesi. Ciò ha costretto le autorità militari genovesi a proteggere il castello di Lerici con la costruzione del rivellino stellato del Poggio, sempre protetto dal segreto militare (si veda l’arresto dal venditore di calze di seta piemontese Francesco Belgini e del suo schizzo a lapis tracciato da Botri, documento del 1756 conservato nelle carte segrete dell’Archivio di Stato di Genova – Confinium, 133). Detto rivellino si vede in parte in una acquaforte su acciaio di Samuel Middiman, del 1819, a titolo Castle of Lerici in the Gulf of Spezia, mentre la battagliola bassa del tiro antinave si vede nella serigrafia del 1850 a titolo The Castle & Town of Lerici – Gulf of Spezzia di Henry Cook, come riportato nel libro “Il disegno del golfo e delle riviere” di Cocevari-Cussar. La tecnica del controfuoco si vede applicata anche in Porto Venere, con la fortificazione dello scoglio antistante il canale, noto come “Torre di San Giovanni Battista” o “Torre Schola”, mentre per la necessità di impedire l’entrata di flotte nemiche all’interno del golfo sono state costruite le batterie opposte di Santa Teresa (versante orientale) e di Santa Maria (versante occidentale, edificata nel 1569). La posa della prima pietra della Batteria di Santa Teresa, in luogo ove già prima esisteva una batteria denominata dell’Oca Pelata, è stata benedetta dal Rettore di San Terenzo Gio. Felice il 7 ottobre 1745, in contrasto con temute pretese del Parroco di Pitelli, avente invece giurisdizione sulla Batteria di San Bartolomeo. Sulla possibilità di sbarcare artiglierie dalle navi e collocarle più in alto per colpire le fortificazioni terrestri, si veda l’episodio delle navi inglesi, entrate nel golfo nonostante i tiri incrociati di Santa Teresa e Santa Maria, che per distruggere questa munitissima fortezza, la bombardarono dall’alto dopo aver trascinato cinque batterie sulla collina. Le truppe francesi, asserragliate all’interno, impossibilitate a difendersi da questa imprevista situazione, attaccate anche dal mare, dovettero capitolare (fine agosto 1799).
La Tana dei Turchi.
A ricordare i pericoli e le vicissitudini subite (e in questo caso superate) dalle popolazioni della costa, si trova a San Terenzo il toponimo “Tana di Turchi”, posizionato sotto il castello. Oggi questa grotta non è più visibile, perché davanti vi è stata costruita la condotta fognante che porta i liquidi verso la Punta del Calandrello, ma la si può scorgere in una vecchia fotografia in cui si vede il pontile in legno ad angolo, antistante il casotto con cupola. Secondo la leggenda i Turchi, sbarcati nottetempo, ebbero la peggio e quelli che, inseguiti, si rifugiarono nella grotta, furono massacrati dai valorosi paesani. Uno degli aspetti di questo racconto è che i cadaveri dei Turchi rimasero insepolti, perché infedeli, e ciò aggiunge un senso di tragica paura al finale dell’evento, perpetuando la inviolabilità della grotta per non imbattersi negli scheletri dei nemici uccisi. Oggi questo evento è oggetto di una festa folkloristica in costume. A dare un certo credito a questa leggenda può sovvenire il fatto che l’ultimo attacco di galere di Biserta contro Telaro è ricordato nei libri parrocchiali con una nota del 1660. Il pittore Navarino ha inserito la tana nel quadro in cui raffigura il Castello di San Terenzo.
L’evoluzione urbanistica del borgo.
La costruzione di ville con alte mura di recinzione ha modificato l’impatto visivo del borgo, che appare più nobile. Nel libro della Parrocchia di San Terenzo, indicato come “Libro dei Legati” ed iniziato nel 1690, si vedono rappresentate a fronte mare le ville Marchi, Rocca e Massa Sarioni, ed ancora più vicina alla battigia la Casa Facini. Davanti al borgo si estendeva allora una lunga spiaggia chiamata “piaggia longa”, che andava da Botri (l’attuale Lido) fino a Santa Teresa, e la cui mappa è riportata nella terza pagina di copertina del “Libro dei Legati” della Parrocchia. Le pecore che da Lerici venivano portate a pascolare nella Vallata (n’travalà) venivano fatte passare nella spiaggia, e solo in caso di mare grosso venivano fatte passare dal Pertuso, allargato allo scopo nel XVI secolo e ornato di una Madonna. La facilità dell’estrazione della sabbia creava problemi per l’abitato e il giorno 9 giugno 1734, durante la visita pastorale alla parrocchia di San Terenzo, venne emesso un decreto contro l’asportazione della sabbia affinché non causasse rovina o altro grave danno alla chiesa. Ciò sotto la pena di scomunica (sub penam excomunicationis).
Di ciò si doveva fare pubblicazione scritta alla porta della chiesa e farne menzione durante la messa solenne. Questo episodio potrebbe aver innescato un modo di dire dei Lericini per prendere in giro i Santerenzini. Si raccontava che i santerenzini volevano spostare la chiesa più lontano dalla spiaggia, tirandola con le funi e spingendola, gridando assieme “dai che va”, ma erano i loro piedi che scivolavano nella sabbia! Di ciò scrive il Canonico Gonetta in “Storia di Lunigiana”al capitolo 411. In ogni modo l’importanza e la bellezza di queste nuove ville ha fatto sì che Percy B. Shelley se ne innamorasse e vi risiedesse fino alla sua tragica morte in mare, lasciando una traccia indelebile nella storia del Romanticismo europeo.
Il Romanticismo e la pittura simbolista di Böcklin.
A rafforzare questa traccia del Romanticismo europeo nella pittura contribuì poi il pittore svizzero Arnold Böcklin, decisamente simbolista, che venne ad abitare a San Terenzo per fare i bagni di mare. Il pescatore Rossi lo accompagnava con la sua barca a visitare le insenature del golfo, ed egli poté così rappresentarle nei suoi grandiosi quadri, di cui si è tenuta una mostra a Basilea, Parigi e Monaco. Nella presentazione della mostra emerse in maniera evidente il soggiorno del pittore a San Terenzo, ma questa gratuita promozione turistica non è stata valorizzata dall’Amministrazione
lericina, che ha ignorato l’evento. Forse non si voleva far emergere il fatto che il pittore abbandonò disgustato San Terenzo, perché egli lo riteneva profanato dalla costruzione della strada rotabile, progettata nel 1870 dall’ingegner Salvini? La moglie italiana del pittore, Angela Pascucci, racconta infatti che “egli andava volentieri a passeggio nella strada da San Terenzo a Lerici, che nella piccola città vi era una affumicata osteria da marinai, dove egli entrava volentieri, sia per fare studi, sia per il vino delle Cinque Terre, un vino bianco assai forte, che gli piaceva molto”. La strada che percorreva il pittore passava per Marigola e per Botri, oggi Via San Giuseppe, ed è certo che passò sotto il pertuso esistente fra le attuali spiagge del Lido (n’Botri) e della Venere Azzurra (n’travalà)
perché vi ambientò il quadro denominato “Ulisse e Calipso”.
Esaminando le sue opere si trovano chiare corrispondenze formali sia con lo “Scogio d’Orlando”, nel quadro denominato “Calma in mare” (Meerstille) ove egli ha collocato una sirena distesa al Sole assieme ad alcuni uccelli marini (berte) sia con l’attuale Parco Shelley (quadri denominati “Il Santuario d’Ercole” e “Il bosco sacro”). Altre corrispondenze, meno chiare si ritrovano con gli scogli della Palmaria (“I giochi delle Naiadi” e forse “I giochi delle onde”, dipinti contemporaneamente) degli Stellini (“Tritone e Nereide”) e con la Torre Schola (“La cappella” e “Rovine ai bordi del mare”). Uno dei celebri quadri titolati “L’isola dei morti” (Die Toteninsel) di cui si conoscono ben cinque versioni fra il 1880 ed il 1886, e che sembra ispirato al tratto di mare antistante il Tinetto (i critici d’arte hanno fatto molte ipotesi, che vanno da Napoli alla Grecia e all’Albania, mentre il pittore non volle mai rivelare da dove ne provenisse l’ispirazione) era alle spalle della scrivania di Hitler mentre, assistito dagli ambasciatori Ribbentrop e Molotov, firmava il “Patto di non aggressione” con la Russia nel 1939. L’ispirazione di Böcklin per questo quadro, dovuta al tragico vissuto della guerra franco-prussiana, sembra sia stata colta dallo spirito profondamente distruttivo di Hitler, che non si volle mai staccare da questo quadro, acquistato in un’asta nel 1933.
Le Confraternite di San Terenzo.
Si rinvengono dalle fonti scritte numerose confraternite. Fra queste la Compagnia del Sacramento, il cui priore era prima eletto dal popolo, ma in seguito fu obbligatoria l’elezione da parte del Parroco (1590). Vi era anche una Compagnia dei Disciplinati ed una Confraternita Mortis et Orationis, aggregata fin dal 1606 alla primaria confraternita di Roma. Leggendo nel “Libro dei Legati” si trova che nel 1641 un certo Antonius Maria Brusacà legavit minas 292 a Societati Sanctissimi Sacramenti – Societati Verbicarni – Societati B. Virgini de Rosario – B.V. de Arena. Importante è notare come a San Terenzo vi fosse il gruppo dedicato alla Eucarestia (Verbum + carnis) che non venendo capito nella sua semantica, era divenuto un appellativo per indicare popolarmente i Santerenzini come quelli di Verbicaro, assumendo quindi questo toponimo un senso incomprensibile, quasi dispregiativo. Questa traslazione di significato si deve al fatto che questa società aveva il proprio oratorio, che evidentemente portava una scritta chiaramente visibile e memorizzabile. Questo fenomeno si è ripetuto con i nomi dialettali delle spiagge, scomparsi perché sostituiti dalle indicazioni leggibili sulle insegne degli stabilimenti balneari in legno del Lido (già Botri) e della Venere Azzurra (già n’travalà) e dello stabilimento in muratura del Colombo (già il Cavo). In termini ecclesiastici appare peraltro incomprensibile come a San Terenzo esistessero due confraternite, nominate in maniera diversa, ma rivolte al culto dell’Ostia Consacrata, cioè la Società del Santissimo Sacramento e la Società Verbicarnis. Né questo può essere un errore perché la suddivisione dei legati continua nel 1654 con una “Antonia Gonetta qd. Hieronymi” la quale emise diversi legati (legavit minas quinquaginta quattuor a Societati SS. Sacramenti – Societati SS. Rosarii – Societati B. Virgini de Arena – Altari de Crucifixi – Altari Verbicationi). Questa diversa attribuzione di legati si ripete più volte, ed emerge che i devoti appartenevano a diverse confraternite, quali la Societati SS. Sufragiis, Societati SS. Rosarii, Societati Assumptionis, Societati Purgatorii.
Il risveglio laico della solidarietà popolare: le Mutuo Soccorso.
Il proliferare di confraternite aveva creato problemi alla chiesa, perché gli organismi direttivi venivano eletti dal popolo, e sorgevano spesso contrasti fra gli organismi rappresentativi di questi sodalizi, anche con i parroci o addirittura con i vescovi. Da ciò una stretta assoluta nella elezione dei rappresentanti, divenuta di nomina vescovile, attraverso i parroci. Anche i giuspatronati, cioè il diritto di nominare i preti titolari di chiese o cappelle veniva a cessare. Si consideri che questo diritto vigeva anche per la cappella di San Giovanni Battista di Pozzuolo, per cui la nomina spettava al primo nato della famiglia Visdomini di Arcola, ed in caso di estinzione il diritto di presentare il nome sarebbe passato poi alla famiglia Bacchione della Serra, ed oltre, se necessario, alla famiglia Sabelli, di cui non si conosce la provenienza. In un documento del 1771, dell’Archivio Capitolare di Sarzana, a proposito di questo beneficio viene riprodotta una lettera di giustificazione del Capitolo contro l’istanza del chierico Visdomini di Arcola, che evidentemente cercava ancora di far valere il suo diritto testamentario. L’avvento delle norme napoleoniche per la chiusura degli enti ecclesiastici determinò la fine delle confraternite. San Terenzo ebbe quindi un risveglio di associazionismo laico seguendo le nuove idee solidariste promosse a livello europeo da pensatori come Marx, Mazzini e Proudhon. San Terenzo ne ebbe due: la più grande fu quella fra gli operai del paese. Fondata il 1° gennaio del 1872, cinque anni dopo contava 120 soci, aveva entrate per 640 lire e spese per 600. Non c’è invece traccia di contabilità per la società tra i marittimi del paese, che il 12 dicembre del 1869 vantava 98 iscritti. Le due società il 2 dicembre del 1883 deliberarono di unirsi per fondare la Società di Mutuo Soccorso Fascio Marittimo Operaio che arrivò a contare quasi trecento soci. L’atto di fondazione porta la data del 1° gennaio 1884 e il riconoscimento avvenne con Regio Decreto del Tribunale di Sarzana del 19 agosto 1908. La “Cooperativa 1° Maggio” fu invece fondata da un meglio identificato Club Educativo ed aprì il primo punto di vendita riservato ai soci nella attuale Via Trogu nel 1884.
La Pubblica Assistenza.
La Pubblica Assistenza di San Terenzo risulta funzionante nel 1899. Nel suo vessillo, fatto pervenire da un anonimo negli anni ’70 alla Pubblica Assistenza di Lerici, figura il motto “Humanitate”. L’associazione apparteneva alle Croci Verdi, cioè quelle di formazione e tendenza repubblicana, anarchica o socialista (le Croci Bianche erano di tendenza monarchica o conservatrice, le Croci Oro appartenevano alla concezione aristocratica del lavoro, le Croci Turchine erano di derivazione contadina). Si sa che operò alacremente durante lo Scoppio di Falconara, in cui fu distrutta la sede. L’associazione ebbe una nuova sede nel Palazzo Milano (una delle nuove costruzioni offerte dalle varie città italiane). Poiché subito dopo si ebbe l’avvento del Fascismo con l’emanazione del decreto sulla monopolizzazione dei servizi pubblici, che imponeva la chiusura di tutte le associazioni, perché “i soli organi che possono e debbono svolgere finalità di interesse pubblico devono essere quelli creati, riconosciuti, o comunque controllati dallo Stato” la Pubblica Assistenza fu chiusa e nella sua sede si installò il Partito Nazionale Fascista. La notte fra il 24 e il 25 aprile 1945 la sede del P.N.F. venne assalita e bruciata, con tutti gli arredi. In tal modo andarono distrutti tutti i libri, i documenti ed i cimeli dell’associazione. Presso la sede della Croce Rossa di Biassa, che già era un Pubblica Assistenza, si trovano due grandi diplomi della Pubblica Assistenza di San Terenzo, rilasciati ai soccorritori provenienti da quel paese.
La Massoneria.
Il porto di Lerici fu in passato un punto nodale delle comunicazioni mediterranee ed europee. Ne fanno fede le numerose rappresentazioni divenute oggi oggetti d’arte, raccolte nel libro di Cocevari-Cussar. Logico che da qui passassero personaggi illustri, ed anche le loro idee. Gli armatori lericini della famiglia Giacopello furono intermediari con Mazzini per il trasporto di armi e per il trasferimento di fondi, e Ambrogio Giacopello fu esiliato e morì a Marsiglia per questa sua attività di sovversivo del sistema. I moti insurrezionali, le attività della Carboneria, il reclutamento dei giovani patrioti passava per Lerici (si veda la visita di arruolamento del medico Bolognini in Carbognano) ma anche per San Terenzo e per Pugliola. Mazzini stesso venne in segreto a Lerici. Le lapidi dei vecchi cimiteri storici mostrano le simbologie del compasso e della squadra e portano l’ideogramma del Grande Architetto dell’Universo. Uno strano caso di trasmutazione di simboli massonici si trova nella Pieve di Ameglia, all’interno della facciata. Qualcuno, nella lapide in marmo che ricorda tre illustri benefattori, cioè Carlo Fabbricotti, il Maestro Salvini ed un maestro scozzese, si è permesso di scalpellinare il marmo sovrapponendo il compasso alla squadra ed al mazzuolo, talché il vulnus bianco diviene insopportabile. Deve essere avvenuta qualche faida interna di cui non si conoscono le ragioni ed è anche difficile capire come ciò sia potuto avvenire. Ciò denota comunque una presenza assai marcata di logge nel nostro territorio. Prova di ciò si ha anche nel fatto che, dopo il passaggio della Massoneria Italiana dall’obbedienza inglese all’obbedienza francese, alcuni emissari partirono da Parigi per sentire cosa pensassero di ciò le Logge di San Terenzo, Lerici e Sarzana. Si deve ritenere che anche il Grande Oriente di Pugliola venisse interpellato? Vanto di San Terenzo è anche aver dato i natali al padrone Azzarini, detto “barba ipsilonne”, il salvatore di Garibaldi, nonché di aver dato i natali ad alcuni garibaldini, fra cui colui che fasciò le catene delle ancore del vapore “Piemonte” con paglia e stracci, per non far sentire il rumore dello stacco della maglia di catena dal “barbotin” ai soldati napoletani che si trovavano di guardia nel porto.
Le beghe, gli scontri, i lazzi, le prese in giro con i Lericini.
Qualcuno si stupisce della marcata differenza dialettale fra due paesi, entrambi sul mare, e così vicini. L’influenza antropica su San Terenzo proviene da Pitelli e da Arcola, che fu proprietaria della costa fino al 1245. Entrambi, come giurisdizione ecclesiastica, appartenevano al territorio della Pieve di Trebiano, la cui giurisdizione passò poi alla Parrocchia di Pugliola. Sia Lerici sia San Terenzo si staccarono dalla chiesa matrice di Pugliola, ma avvenne che per un certo tempo la Parrocchia di Lerici amministrò Pugliola, che rimase senza sacerdote (ed avvenne che per questa offesa gli uomini di Primacina uccisero il parroco di Lerici, mentre transitava in loco per raggiungere Sarzana). Durante questa vacatio i confini della Parrocchia di Lerici si ampliarono fino al Portiola, venendo a comprendere le ville agrarie di nuova costruzione, i cui abitanti continuarono a frequentare la chiesa di San Terenzo, sia per le Sante Messe sia per le cerimonie dei sacramenti (battesimi, cresime, matrimoni, funerali). Ciò creava problemi di decime e dette luogo ad una causa che durò due secoli e che fu risolta poi a favore della Parrocchia di San Terenzo. Durante questo lungo periodo di lite religiosa avvenne anche che i Lericini si fecero dipingere una Madonna che è un “unicum” nella iconografia mariana, perché il quadro presenta due Madonne con il Bambino, che risultano simili alla Madonna Bianca di Porto Venere e alla Madonna dell’Arena.
Si noti che questa Madonna doppia è chiamata Annunziata, pur essendo ricca di due Bambin Gesù.
I Santerenzini non vollero mai andare a Lerici per discutere le cause presso il Palazzo di Giustizia genovese, sito nella attuale Piazza Garibaldi, ospitante oggi una filiale di banca (e contenente all’interno strutture della antica chiesa di San Giorgio, “in loco Lerice propre ubi dicitur sancto georgio, iuxta portum ipsius loci” come in atto del 7 ottobre 1166 stipulato fra Genova e Lucca).
I Santerenzini chiamavano i Lericini figli di Giuda, come riferisce il Canonico Gonetta, per via dell’albero di fico nato sul piazzale superiore del castello di Lerici, e malvolentieri subivano le angherie per effettuare lavori di pubblica utilità, come si legge in un documento del 15.11.1822: “…lavori di ristoro da eseguire in codesta strada romana, mediante la distribuzione di giornate in tutte le parrocchie componenti il Comune in proporzione alla popolazione”.
Oggi si assiste ad un fenomeno inverso. L’Amministrazione Comunale è composta di cittadini che provengono dal territorio di San Terenzo, perché la popolazione lericina è in gran parte costituita di “foresti”, qui arrivati per un “buen retiro”, dopo esservi giunti per fare i bagni di mare e dopo aver acquistato una “seconda casa”. I giovani lericini, a causa della notevole lievitazione della rendita immobiliare, sono infatti costretti a cercare casa nei comuni vicini, di Arcola e Sarzana. Inoltre la conformazione ad anello chiuso della viabilità lericina, con la conseguente mancanza di parcheggi, costringe i residenti all’acquisto di box, il cui prezzo è notevolmente più elevato rispetto agli standard di mercato di altre località. Il “genius loci” futuro sarà plasmato dai Santerenzini ?
Il borgo di San Terenzo al Mare è paredro con il borgo di San Terenzo ai Monti, perché collegato con la storia del monaco irlandese che sarebbe stato martirizzato appena sbarcato nel nostro territorio. Il suo corpo, preteso da molti, fu caricato, secondo la leggenda, su un carro da buoi e sarebbe stato sepolto nel luogo ove i buoi, stremati, si sarebbero fermati. Si dovrebbe quindi ipotizzare che il luogo dello sbarco sarebbe stato San Terenzo al Mare e il luogo della sepoltura San Terenzo ai Monti. Nelle “Iscrizioni del Golfo della Spezia” del Falconi si legge in proposito:
“A Sarzana, nel Palazzo Vescovile, scritta sotto l’effigie di S. Terenzio:
S.TERENTIUS
APOSTOLORUM LIMI-
NA INVISURUS AD FLUMEN
AVENTIAE A PRAE-
DONIBUS INTERIMITUR”.
Nel Tomo I della “Storia Ecclesiastica della Liguria” di P.Pietro Paganetti, alla pagina 386 si legge:
“S.TERENTIUS EPUS LUNEN ET MARTYR
DE QUO NULLA ALIA EXTAT MEMORIA APUD NOS
NISI DUO CASTRA IN NOSTRA PROVINCIA
QUAE NOMINE SANCTI ISTIUS
NOMINANTUR
Nella storiografia della Diocesi di Luni il vescovo Terenzio è citato nel 556. Sarebbe originario della Lunigiana, perché i Terenzi sono famiglia citata come presente nella Luni romana. Il suo nome appare in una epistola di Papa Pelagio I del 559, indirizzata ai vescovi separati della Tuscia Annonaria, come uno dei due vescovi più restii a rientrare nella comunità. Il San Terenzio, patrono di Pesaro, apparterrebbe invece a secoli precedenti, perché, proveniente dalla Pannonia (Ungheria) sarebbe stato martirizzato per la sua fede cristiana nel 251, presso la fonte detta <aqua mala>, un’acqua sulfurea sgorgante vicino la Badia di San Tommaso in Foglia, fra Pesaro e Urbino.
Ipotesi di frequentazione umana del territorio in epoche preistoriche.
Il toponimo Falconara, assieme al toponimo Monte Castellano, cioè <castellaro>, ed al toponimo “Monte do Sogio” di Pitelli, cioè Monte del <solium>, il sedile del sacerdote “augure”, denotano la presenza di un luogo dedicato a sacrifici guidati dal volo degli uccelli rapaci, come narrano le Tavole Eugubine, cioè il testo liturgico dell’Occidente europeo, corrispondente ai libri del Levitico e del Deuteronomio della Bibbia. I voli degli uccelli dovrebbero essere stati molto ricchi di specie volatili, perché interessati dal collegamento del mare con le retrostanti paludi degli Stagnoni. Una prospezione sull’altura del Monte Castellano potrebbe fornire la prova della frequentazione preistorica del sito. Il toponimo Pitelli, derivante dalla voce “puplitelli” delle Tavole di Gubbio, è rimasto tale in un documento normanno della Daunia (in loco ubi dicitur puplitelli pertinenciis Sancte Agathe – documento L, anno 1186) citato dal Maruotti nel suo libro “Italia sacra preistorica”, mentre qui da noi si nota una caduta della sillaba iniziale.
La prima documentazione del toponimo.
Nel Codice Pelavicino si può ritenere come decisamente attribuibile a San Terenzo al Mare la seguente citazione, che appare alla pagina 516 del Regesto del Lupo Gentile, documento N° 493 anno 1218, indizione 6, del mese di marzo:
“…et usantiis vel consuetudinibus quas domini de Treblano debent habere in hominibus habitantibus infra districtum Amelie et de apportu piscium qui infra districtum et curiam de Trebiano a quibuscumque personis capiuntur, a capite sancti Terencii citra, accipiendo…”
ed ancora a pagina 517: “…at ut nuncios ep.lun. apportum piscium accipere usque ad S.Terencium permittant, et non inquitent…”, mentre si può considerare egualmente credibile l’altra descrizione alla pagina 377 dello stesso Regesto, documento N° 398 del 1271, agosto 12, indizione 13:
“et omnia alia sua iura tam incorporalia quam corporalia que et quas et quos habet et habere usus est solitus in curia et territorio Trebiani, Ilicis et S.Terencii…”.
Le altre citazioni si debbono pensare relative a San Terenzo ai Monti.
Nel manoscritto “Storia di Lunigiana” del lericino Canonico Gio Batta Gonetta, conservato presso la Biblioteca Civica “Mazzini” della Spezia, alla pagina 55 si legge:
“Vuolsi che Gualtiero vescovo di Luni nell’881 a Portiolo costruisse la chiesa di San Terenzio, da cui poi il nome di Santerenzo al paese sorto su quella spiaggia del Comune di Lerici”. Lo stesso canonico, nel “Saggio Istorico Descrittivo della Diocesi di Luni” scrive che sia Solaro sia San Terenzo prendono nome di santi cui erano titolate le loro antiche chiese.
Secondo il Canonico arcolano Alessandro Centi, San Terenzo fu fondato come Colonia genovese nel 1112. Tale deduzione deriva dal documento del “Liber Curium” della Repubblica di Genova, Tomus I, stampato ad Augustae Taurinorum, ex Officina Regia, anno 1853, documento 179, colonna 161. Vi si rileva come in Porto Venere “alcuni signori di Arcola vendono cinque parti del Monte di Lerici al Comune di Genova. La Repubblica di Genova veniva così a costituire in modo legale il suo dominio sopra la sponda orientale del Golfo di Spezia, di rimpetto alla Colonia di San Terenzo, che essa aveva stabilito sulla sponda opposta circa quarant’anni prima. Questo afferma lo storico Giorgio Stella; e aggiunge che il Monte di Lerici acquistato allora è quello sul quale poi venne costruito il Castello”. Nel libro dell’Ambrosi “Lerici” si fa riferimento a culti ariani nella parte alta di San Terenzo ed a culti cattolici nella fascia costiera. Terenzio, cristiano proveniente dalla Scozia, venne eletto vescovo di Luni e morì durante una missione di evangelizzazione. Nelle carte trascritte dal Falco il nome di Santerencio si trova in un atto del 14 aprile 1260, riportato alla pagina 165, nei documenti dell’Archivio di San Venerio del Tino, a proposito di certe ragioni di una conversa di nome Aidelina.
In trascrizioni successive il toponimo si ritrova come “Sanctorentio Potestate Illicis” (1500) o come
“Sanctorentio Villa Illicis” (1504), mentre altre volte viene abbreviato come “S°Arenzo”, “S°Erencio” o “Santo Herenzo”.
La Romanità.
Non si rinviene nessuna informazione su questo periodo. Resta però di grande importanza l’affermazione del poeta Aulo Persio Flacco, che nelle Satire (VI, 6, 10) scrive:
“Mihi nunc Ligus ora intepet hibernatque meum mare qua latus ingens dant scopuli et multa litus se valle receptat. Lunai portum est operae conoscere cives cor iubet hoc Ennii”.
Si ritiene opportuno riportarne la traduzione perché aiuta a riconoscere come il “Portus Lunae”, descritto da Strabone, sia da considerare il golfo della Spezia:
“Per me vi sono ora i tepori della ligure spiaggia e l’inverno del mio mare, dove gli scogli formano un ampio fianco e il lido s’inarca in profondo seno. Venite a visitare il Porto di Luni, o cittadini, ne vale la pena. A ciò esorta il cuore di Ennio”.
Il giovane poeta Persio, di nobile e ricca famiglia, nativo di Volterra, possedeva evidentemente una delle ville romane del Muggiano, luogo ricco di acque, anche termali, e quindi poteva descrivere bene la profondità visiva del golfo. Sulla profondità dei pescaggi sovviene Strabone, ma anche bastano le attuali batimetriche, mentre per quanto riguarda approdi o lagune interne nell’estuario della Magra non si possono fare eguali affermazioni (Strabone infatti parla di “molte rade tutte molto profonde”) perché il poeta Lucano (Fontes Ligurum, pag. 308, nota 1067) scrive .
“…nullasque vado qui macra moratus alnos vicinae procurrit in aequora Lunae” che viene tradotto così:
“…il Magra che fluisce nel mare della vicina Luni non può contenere navi di ontano” in quanto le sue acque non sono profonde a sufficienza.. Infatti il legno di ontano pesa circa 500 chilogrammi per metro cubo. Perché non pensare che i ricchi romani non raggiungessero la spiaggia di San Terenzo, per dilettarsi di quelle sensazioni (dovute alle interazioni geomasse-biomasse procurate dalla quarzite rosa del promontorio) che David Herbert Lawrence ha descritto? Nella lettera inviata a Henry Savage, pubblicata dall’editore Heineman in Londra, scritta da bordo del vaporetto “Unione Operaia”, si legge infatti:
“È un meraviglioso mattino, con un grande, piatto, massiccio mare blu e strane vele lontane, con una profonda luminosità di perla, e San Terenzo tutto scintillante di rosa sulla spiaggia. È così bello che fa quasi male”.
Il Medioevo.
Poche sono le informazioni raccolte dalle fonti di archivio. Sembra però logico supporre che, a fronte delle continue razzie dei Saraceni, il borgo sia potuto sorgere dopo che le flotte riunite di Genova e Pisa abbiano potuto liberare la Sardegna e la Corsica dalle basi dei temibili predoni (i Saraceni distruggono Luni nel 1016). Rafforza questa ipotesi la costruzione della chiesa di San Lorenzo al Caprione (sec. XI-XII) in una valletta non visibile dal mare. Soltanto dopo la rovina di detta chiesa, costruita su faglia (quindi condannata ad aprirsi), si ebbe il trasferimento della liturgia nell’altura di Pugliola, certamente visibile dal mare, perché il pericolo era ormai passato (le lapidi presenti in questa chiesa portano date della fine del 1300). Oltre alla pesca, di cui si ha la documentazione nelle pergamene del Codice Pelavicino sopra citate, ed ovviamente all’agricoltura, favorita dalla notevole presenza di acqua (come dimostrano i toponimi Bagnola e Bagnara) si riscontra presenza di traffici marittimi. Il Poggi documenta che nel 1268 un carico di trenta “metrete” di vino parte da San Terenzo per Bonifacio, col nolo di 20 denari per metreta. Ciò conferma l’esportazione di surplus alimentari di buona qualità, dovuti ad una agricoltura specializzata nella coltivazione della vite, che doveva aver dato luogo alla fama del vino di Mongiardino, la attuale zona di Pozzuolo. Della presenza di queste colture specializzate nel golfo della Spezia sovviene l’episodio del 1165 in cui la flotta pisana attacca Porto Venere con venti galere, ma non riesce ad espugnarlo, per cui si rivolge verso la Palmaria e verso Marola distruggendovi tutte le vigne. Sembra logico supporre che anche la coltivazione dell’olivo fosse presente, perché l’episodio della ruberia del carico di olio pisano destinato alla esportazione verso i Saraceni, avvenuta nel 1222, denota una fiorente corrente commerciale di scambio di merci pregiate, da una parte l’olio, dall’altra le spezie e lo zucchero di Babilonia e di Cipro. Si noti come il poeta Persio, nella Quinta Satira, accenni già a scambi “con merci italiche di rugoso pepe e granelli di cumino che inducono al pallore”. Sulla solidità di questa coltura specializzata, insegnata agli uomini dalla Dea Atena, in tempi successivi, si hanno le affermazioni del Petrarca, scritte sia nel poema “Africa” sia nelle “Lettere Famigliari”, in particolare nella Lettera da Valchiusa del 23 aprile 1347, in cui il poeta descrive la qualità dell’olio di oliva “vergine” spremuto a freddo, della nostra riviera. Questa libertà di commercio di merci pregiate degli uomini della costa doveva preoccupare Genova, perché nel 1270 il governo di Genova impegna i Lericini a non navigare in alto mare, se non partendo da Genova. Questo gravame di politica economica era già stato emanato dal Ducato di Venezia nel 1228, con l’obbligo di tutte le navi mercantili naviganti a nord di Ancona di convergere nel porto di Venezia.
Il ciclo carolingio a San Terenzo.
Si deve al Centro Etnografico Ferrarese l’apertura di uno studio a livello nazionale e internazionale sull’immaginario collettivo legato al paladino Orlando. L’immagine di Orlando è quella di un uomo forte e coraggioso, quindi un concetto reale che prescinde dal concetto di esistenza e di verificabilità
storica del personaggio L’immaginazione popolare, dopo essere stata contaminata dal giudizio di valore, ne ha identificato nel territorio alcune rappresentazioni estetico-formali dovute alla natura dei luoghi (soggetto primario) e le ha memorizzate come icone, generando leggende (soggetto secondario) che appartengono alla antropologia locale. Se una conformazione geologica, rappresentata da una fessurazione profonda, esiste in un territorio, ecco sorgere nell’immaginario collettivo che quella fessurazione è stata creata in passato dai fendenti della Durlindana di Orlando. Ciò è successo sia in Sardegna, per la fenditura di Capo Sant’Elia (Cagliari) sia a San Terenzo per lo “Scogio d’Orlando”. Questo scoglio deriva da una grossa parte di parete a forma rotonda, franata a mare e spezzatasi con una perfetta linearità. L’immaginario poietico dei Santerenzini (lo spirito che crea) ha determinato un mito eguale all’immaginario poietico di popolazioni marittime cagliaritane. Questo elemento è stato inserito in una rete di fenomeni analoghi, legati a forme eccezionali, e così si è creata una mostra itinerante a livello internazionale, denominata “Sulle orme di Orlando” per collegare luoghi che hanno mantenuto nel loro “genius loci” la memoria di un cavaliere del tempo di Carlo Magno, forte e puro, matto quanto basta per essere glorificato come un divo, dando vita ad un capolavoro, quale appunto l’<Orlando Furioso> dell’Ariosto. Ciò è avvenuto in contesto mediterraneo, fra terra e mare, che mantiene contemporaneamente la memoria delle Crociate. Non per niente a San Terenzo esiste una tradizione familiare per cui nel trasporto funebre al cimitero di un maschio di famiglia, veniva posta sul cataletto la croce d’argento di un antenato che aveva partecipato ad una crociata! Non per niente si ritrova un appellativo, un soprannome, che così suona: “quei dae bale sante”. A San Terenzo si mescolano tracce della Chanson de Roland e dell’<Orlando Furioso>. Il tema del racconto non è solo ispirato alla cavalleria, all’eroismo per la difesa della fede, con il disprezzo della paura di morire, ma anche ad altri interessi di potenza, in questo caso sessuale. Nel testo “Il viaggio di Carlomagno in Oriente” nella lassa XXVI, si legge che Orlando chiese al fido Olivieri: “Olivieri, dite il vostro vanto”. Questi rispose: “Volentieri se Carlo lo consente. Il re prenda sua figlia, che ha capelli tanto biondi, ci metta in camera sua, da soli in un letto: se io, stanotte, per sua testimonianza, non la possiedo cento volte, mi si tagli la testa domani, giuro che consento”. Il numero cento è importantissimo nell’immaginario collettivo, e non solo in quello. In una specie di continuità fra la memoria di cavalieri laici e cavalieri templari, che può essere stata determinata dal fatto che la Sesta Crociata partì da Porto Venere e da Marsiglia, può trovarsi una medesima numerologia. Nella “Regola del Tempio” del 1128, all’articolo III, denominato “Che cosa fare per i fratelli defunti” si legge: “I fratelli ivi presenti, che pernottano pregando per la salvezza del fratello defunto, dicano cento orazioni del Signore [il Padre Nostro] fino al settimo giorno”. Certo non si può trovare altrettanta analogia per il rapporto con la femminilità, e soprattutto con la carica energetica del corpo femminile, perché l’articolo ultimo della Regola, il LXXII , così è titolato: “Si evitino i baci di tutte le donne”, e recita come di seguito: “Riteniamo pericoloso per ogni religioso fissare lungamente il volto delle donne; perciò un fratello non osi baciare né una vedova, né una nubile, né la madre, né la sorella, né un’amica, né nessuna altra donna. Fugga dunque la milizia di Cristo i baci femminili, attraverso i quali gli uomini spesso sono in pericolo: così con coscienza pura e vita libera può perennemente conversare al cospetto del Signore”. Questo confronto è particolarmente interessante in senso antropologico, perché San Terenzo apparirebbe come un sito legato più a cavalieri laici, visto che vi si rinviene il cognome “Basadonne”! Non è però pensabile che la presenza della matità di Orlando arrivasse a dar fuoco alle case, come si percepisce dal cognome “Brusacà”, perché questo cognome deriva dal nome germanico Brusik, che si ritiene possa esser appartenuto a soldati svizzeri, acquartierati a lungo a Sarzana. Infatti nella chiesa di San Francesco di questa vicina città si rinviene una rara lapide, incisa in Latino ed in lingua germanica, a ricordo della sepoltura del comandante di questa guarnigione. A rafforzare la tradizione carolingia, oltre al toponimo Monte d’Orlando, di cui finora non si conoscere la ragione, è emersa la presenza di cinque toponimi finora inediti, che sono contenuti in carte dell’Archivio di Stato della Spezia, indicate come “Catasto del 1690”, ma che meglio sembrerebbero da attribuire al 1609, e che costituiscono un vero tesoro toponomastico legato alle “Orme di Orlando”, e cioè i toponimi “Vale de Lanciloto” e “Vale de Lanzeroto”. Questa scoperta offre ulteriore conferma alla attendibilità degli scritti del Canonico Gonetta circa i modi di dire di Lerici. Egli infatti riporta il detto “testa di Baiardo”. Baiardo è il cavallo baio del Paladino Rinaldo, cavallo dotato di qualità straordinarie, capace di partecipare attivamente alla battaglia, capace di allungarsi per portare tutti quattro i figli del Cavaliere Aimone, capace addirittura di intelligenza simile all’uomo. Esiste quindi un legame antico fra la memoria orale di Lerici e la documentazione scritta di San Terenzo, che potrebbe spiegarsi con la permanenza nel seno del Cesino, o di Pertusola o del Muggiano, del “portu maris Centum Clavium” cioè del porto ricco di sorgenti d’acqua, con il piccolo porto dell’Ospedale di Cento Chiavi, con annessi bagni termali, come risulta dal documento del 27 giugno 1245 del Registrum Vetus del Comune di Sarzana:
“portu maris Centum Clavium, et Plagiis, et Arenis, et Lapidibus in dictis plagiis et confinibus, et de iurisdictione dictorum locorum et de portulo hospitalis Centum Clavium et balneorum in dicto portu existentium”.
La lastra fotografica del 1880, in cui si può scorgere il piccolo porto annesso all’Ospedale di San Leonardo, di attribuzione templare, poi passato all’Ordine di Malta, è stata pubblicata nel libro “Lerici, la storia in fotografia”, Volume Primo. Vi si scorge anche una torre da guerra con finestre arciere. Il Gonetta, nel manoscritto inedito “Storia di Lunigiana” a pagina 168, cita che nel 1380 è sorta una questione fra Andrea, Sindaco del Comune Arcola, ed il rettore dello Ospedale di San Leonardo di Cento Croci, rappresentato da un Perfetti di San Terenzo, in quanto detto ospedale era debitore di uno staio annuo di grano verso la comunità di Arcola (“facea finire et refutantiare et omnimodum de omni jura ratione et actione” di un annuo staio di frumento del quale sino allora quell’Ospitale era andato debitore ad essa comunità).
Lo scritto è importantissimo perché lega San Terenzo all’Ospedale della Stazione Navale dei Templari (o degli Ospitalieri?) detta de Fenoclaria e fornisce ragione del legame con Arcola, perché il territorio apparteneva prima ad Arcola e poi fu venduto a Sarzana. Il successivo documento del 28 gennaio 1255, conservato nel Fondo Roncioni dell’Archivio di Stato di Pisa, riporta che il Maestro di tutte le Stazioni Navali dei Templari era fra Dalmatio de Fenoclaria! Non ci si deve stupire dell’uso del doppio toponimo Cento Chiavi-Cento Croci perché l’uno è di derivazione latina e sta ad indicare la presenza di cinque diverse sorgenti, fra cui una di acqua arseniosa che fece ammalare l’equipaggio di una galera dell’Ordine di Malta, mentre l’altro è di origine celtica e sta ad indicare “passaggio in alto fra i massi”, come gli altri Cento Croci della nostra provincia, e va collegato con il toponimo “Oca Pelata”, di origine ancora più antica perché derivante dai Paleo-umbri. Infatti ocar è un luogo alto fortificato, corrispondente all’arx latina, in cui si facevano preghiere ed offerte alla divinità, ad alta voce (lemma umbro pihatu, da cui poi il nome di persona Pilato ed il nome di diversi Monte Pilato, in Italia ed in Svizzera).
San Terenzo e la tecnica del controfuoco nel golfo della Spezia.
Con l’utilizzo della nuova invenzione della polvere pirica nell’arte della guerra (1340) tutta la architettura militare ha subito profonde trasformazioni. La costruzione del castello di San Terenzo risponde alla necessità di difendersi dal tiro delle artiglierie navali, più maneggevoli, sempre più moderne di quelle issate sugli spalti delle battagliole o dei castelli o dei rivellini, perché le potenze marittime dominanti sul mare disponevano di maggiori risorse economiche. La nave infatti si avvicinava alla fortificazione terrestre, faceva sì che da questa si sparasse qualche colpo, misurava la lunghezza di tiro, quindi si ancorava più al largo e iniziava il cannoneggiamento senza essere raggiunta dalla portata inferiore delle artiglierie terrestri. Sorse così l’avvedutezza, da parte delle autorità militari del territorio, di creare una rete di batterie che costringesse le navi a stare al largo e a non poter attuare la suddetta tecnica. La costruzione del castello di San Terenzo risponde quindi alla necessità di far restare al largo le navi attaccanti, senza poter sbarcare sulla spiaggia e magari trasportare pezzi di artiglieria per colpire le fortificazioni terrestri da lati non difesi. Ciò ha costretto le autorità militari genovesi a proteggere il castello di Lerici con la costruzione del rivellino stellato del Poggio, sempre protetto dal segreto militare (si veda l’arresto dal venditore di calze di seta piemontese Francesco Belgini e del suo schizzo a lapis tracciato da Botri, documento del 1756 conservato nelle carte segrete dell’Archivio di Stato di Genova – Confinium, 133). Detto rivellino si vede in parte in una acquaforte su acciaio di Samuel Middiman, del 1819, a titolo Castle of Lerici in the Gulf of Spezia, mentre la battagliola bassa del tiro antinave si vede nella serigrafia del 1850 a titolo The Castle & Town of Lerici – Gulf of Spezzia di Henry Cook, come riportato nel libro “Il disegno del golfo e delle riviere” di Cocevari-Cussar. La tecnica del controfuoco si vede applicata anche in Porto Venere, con la fortificazione dello scoglio antistante il canale, noto come “Torre di San Giovanni Battista” o “Torre Schola”, mentre per la necessità di impedire l’entrata di flotte nemiche all’interno del golfo sono state costruite le batterie opposte di Santa Teresa (versante orientale) e di Santa Maria (versante occidentale, edificata nel 1569). La posa della prima pietra della Batteria di Santa Teresa, in luogo ove già prima esisteva una batteria denominata dell’Oca Pelata, è stata benedetta dal Rettore di San Terenzo Gio. Felice il 7 ottobre 1745, in contrasto con temute pretese del Parroco di Pitelli, avente invece giurisdizione sulla Batteria di San Bartolomeo. Sulla possibilità di sbarcare artiglierie dalle navi e collocarle più in alto per colpire le fortificazioni terrestri, si veda l’episodio delle navi inglesi, entrate nel golfo nonostante i tiri incrociati di Santa Teresa e Santa Maria, che per distruggere questa munitissima fortezza, la bombardarono dall’alto dopo aver trascinato cinque batterie sulla collina. Le truppe francesi, asserragliate all’interno, impossibilitate a difendersi da questa imprevista situazione, attaccate anche dal mare, dovettero capitolare (fine agosto 1799).
La Tana dei Turchi.
A ricordare i pericoli e le vicissitudini subite (e in questo caso superate) dalle popolazioni della costa, si trova a San Terenzo il toponimo “Tana di Turchi”, posizionato sotto il castello. Oggi questa grotta non è più visibile, perché davanti vi è stata costruita la condotta fognante che porta i liquidi verso la Punta del Calandrello, ma la si può scorgere in una vecchia fotografia in cui si vede il pontile in legno ad angolo, antistante il casotto con cupola. Secondo la leggenda i Turchi, sbarcati nottetempo, ebbero la peggio e quelli che, inseguiti, si rifugiarono nella grotta, furono massacrati dai valorosi paesani. Uno degli aspetti di questo racconto è che i cadaveri dei Turchi rimasero insepolti, perché infedeli, e ciò aggiunge un senso di tragica paura al finale dell’evento, perpetuando la inviolabilità della grotta per non imbattersi negli scheletri dei nemici uccisi. Oggi questo evento è oggetto di una festa folkloristica in costume. A dare un certo credito a questa leggenda può sovvenire il fatto che l’ultimo attacco di galere di Biserta contro Telaro è ricordato nei libri parrocchiali con una nota del 1660. Il pittore Navarino ha inserito la tana nel quadro in cui raffigura il Castello di San Terenzo.
L’evoluzione urbanistica del borgo.
La costruzione di ville con alte mura di recinzione ha modificato l’impatto visivo del borgo, che appare più nobile. Nel libro della Parrocchia di San Terenzo, indicato come “Libro dei Legati” ed iniziato nel 1690, si vedono rappresentate a fronte mare le ville Marchi, Rocca e Massa Sarioni, ed ancora più vicina alla battigia la Casa Facini. Davanti al borgo si estendeva allora una lunga spiaggia chiamata “piaggia longa”, che andava da Botri (l’attuale Lido) fino a Santa Teresa, e la cui mappa è riportata nella terza pagina di copertina del “Libro dei Legati” della Parrocchia. Le pecore che da Lerici venivano portate a pascolare nella Vallata (n’travalà) venivano fatte passare nella spiaggia, e solo in caso di mare grosso venivano fatte passare dal Pertuso, allargato allo scopo nel XVI secolo e ornato di una Madonna. La facilità dell’estrazione della sabbia creava problemi per l’abitato e il giorno 9 giugno 1734, durante la visita pastorale alla parrocchia di San Terenzo, venne emesso un decreto contro l’asportazione della sabbia affinché non causasse rovina o altro grave danno alla chiesa. Ciò sotto la pena di scomunica (sub penam excomunicationis).
Di ciò si doveva fare pubblicazione scritta alla porta della chiesa e farne menzione durante la messa solenne. Questo episodio potrebbe aver innescato un modo di dire dei Lericini per prendere in giro i Santerenzini. Si raccontava che i santerenzini volevano spostare la chiesa più lontano dalla spiaggia, tirandola con le funi e spingendola, gridando assieme “dai che va”, ma erano i loro piedi che scivolavano nella sabbia! Di ciò scrive il Canonico Gonetta in “Storia di Lunigiana”al capitolo 411. In ogni modo l’importanza e la bellezza di queste nuove ville ha fatto sì che Percy B. Shelley se ne innamorasse e vi risiedesse fino alla sua tragica morte in mare, lasciando una traccia indelebile nella storia del Romanticismo europeo.
Il Romanticismo e la pittura simbolista di Böcklin.
A rafforzare questa traccia del Romanticismo europeo nella pittura contribuì poi il pittore svizzero Arnold Böcklin, decisamente simbolista, che venne ad abitare a San Terenzo per fare i bagni di mare. Il pescatore Rossi lo accompagnava con la sua barca a visitare le insenature del golfo, ed egli poté così rappresentarle nei suoi grandiosi quadri, di cui si è tenuta una mostra a Basilea, Parigi e Monaco. Nella presentazione della mostra emerse in maniera evidente il soggiorno del pittore a San Terenzo, ma questa gratuita promozione turistica non è stata valorizzata dall’Amministrazione
lericina, che ha ignorato l’evento. Forse non si voleva far emergere il fatto che il pittore abbandonò disgustato San Terenzo, perché egli lo riteneva profanato dalla costruzione della strada rotabile, progettata nel 1870 dall’ingegner Salvini? La moglie italiana del pittore, Angela Pascucci, racconta infatti che “egli andava volentieri a passeggio nella strada da San Terenzo a Lerici, che nella piccola città vi era una affumicata osteria da marinai, dove egli entrava volentieri, sia per fare studi, sia per il vino delle Cinque Terre, un vino bianco assai forte, che gli piaceva molto”. La strada che percorreva il pittore passava per Marigola e per Botri, oggi Via San Giuseppe, ed è certo che passò sotto il pertuso esistente fra le attuali spiagge del Lido (n’Botri) e della Venere Azzurra (n’travalà)
perché vi ambientò il quadro denominato “Ulisse e Calipso”.
Esaminando le sue opere si trovano chiare corrispondenze formali sia con lo “Scogio d’Orlando”, nel quadro denominato “Calma in mare” (Meerstille) ove egli ha collocato una sirena distesa al Sole assieme ad alcuni uccelli marini (berte) sia con l’attuale Parco Shelley (quadri denominati “Il Santuario d’Ercole” e “Il bosco sacro”). Altre corrispondenze, meno chiare si ritrovano con gli scogli della Palmaria (“I giochi delle Naiadi” e forse “I giochi delle onde”, dipinti contemporaneamente) degli Stellini (“Tritone e Nereide”) e con la Torre Schola (“La cappella” e “Rovine ai bordi del mare”). Uno dei celebri quadri titolati “L’isola dei morti” (Die Toteninsel) di cui si conoscono ben cinque versioni fra il 1880 ed il 1886, e che sembra ispirato al tratto di mare antistante il Tinetto (i critici d’arte hanno fatto molte ipotesi, che vanno da Napoli alla Grecia e all’Albania, mentre il pittore non volle mai rivelare da dove ne provenisse l’ispirazione) era alle spalle della scrivania di Hitler mentre, assistito dagli ambasciatori Ribbentrop e Molotov, firmava il “Patto di non aggressione” con la Russia nel 1939. L’ispirazione di Böcklin per questo quadro, dovuta al tragico vissuto della guerra franco-prussiana, sembra sia stata colta dallo spirito profondamente distruttivo di Hitler, che non si volle mai staccare da questo quadro, acquistato in un’asta nel 1933.
Le Confraternite di San Terenzo.
Si rinvengono dalle fonti scritte numerose confraternite. Fra queste la Compagnia del Sacramento, il cui priore era prima eletto dal popolo, ma in seguito fu obbligatoria l’elezione da parte del Parroco (1590). Vi era anche una Compagnia dei Disciplinati ed una Confraternita Mortis et Orationis, aggregata fin dal 1606 alla primaria confraternita di Roma. Leggendo nel “Libro dei Legati” si trova che nel 1641 un certo Antonius Maria Brusacà legavit minas 292 a Societati Sanctissimi Sacramenti – Societati Verbicarni – Societati B. Virgini de Rosario – B.V. de Arena. Importante è notare come a San Terenzo vi fosse il gruppo dedicato alla Eucarestia (Verbum + carnis) che non venendo capito nella sua semantica, era divenuto un appellativo per indicare popolarmente i Santerenzini come quelli di Verbicaro, assumendo quindi questo toponimo un senso incomprensibile, quasi dispregiativo. Questa traslazione di significato si deve al fatto che questa società aveva il proprio oratorio, che evidentemente portava una scritta chiaramente visibile e memorizzabile. Questo fenomeno si è ripetuto con i nomi dialettali delle spiagge, scomparsi perché sostituiti dalle indicazioni leggibili sulle insegne degli stabilimenti balneari in legno del Lido (già Botri) e della Venere Azzurra (già n’travalà) e dello stabilimento in muratura del Colombo (già il Cavo). In termini ecclesiastici appare peraltro incomprensibile come a San Terenzo esistessero due confraternite, nominate in maniera diversa, ma rivolte al culto dell’Ostia Consacrata, cioè la Società del Santissimo Sacramento e la Società Verbicarnis. Né questo può essere un errore perché la suddivisione dei legati continua nel 1654 con una “Antonia Gonetta qd. Hieronymi” la quale emise diversi legati (legavit minas quinquaginta quattuor a Societati SS. Sacramenti – Societati SS. Rosarii – Societati B. Virgini de Arena – Altari de Crucifixi – Altari Verbicationi). Questa diversa attribuzione di legati si ripete più volte, ed emerge che i devoti appartenevano a diverse confraternite, quali la Societati SS. Sufragiis, Societati SS. Rosarii, Societati Assumptionis, Societati Purgatorii.
Il risveglio laico della solidarietà popolare: le Mutuo Soccorso.
Il proliferare di confraternite aveva creato problemi alla chiesa, perché gli organismi direttivi venivano eletti dal popolo, e sorgevano spesso contrasti fra gli organismi rappresentativi di questi sodalizi, anche con i parroci o addirittura con i vescovi. Da ciò una stretta assoluta nella elezione dei rappresentanti, divenuta di nomina vescovile, attraverso i parroci. Anche i giuspatronati, cioè il diritto di nominare i preti titolari di chiese o cappelle veniva a cessare. Si consideri che questo diritto vigeva anche per la cappella di San Giovanni Battista di Pozzuolo, per cui la nomina spettava al primo nato della famiglia Visdomini di Arcola, ed in caso di estinzione il diritto di presentare il nome sarebbe passato poi alla famiglia Bacchione della Serra, ed oltre, se necessario, alla famiglia Sabelli, di cui non si conosce la provenienza. In un documento del 1771, dell’Archivio Capitolare di Sarzana, a proposito di questo beneficio viene riprodotta una lettera di giustificazione del Capitolo contro l’istanza del chierico Visdomini di Arcola, che evidentemente cercava ancora di far valere il suo diritto testamentario. L’avvento delle norme napoleoniche per la chiusura degli enti ecclesiastici determinò la fine delle confraternite. San Terenzo ebbe quindi un risveglio di associazionismo laico seguendo le nuove idee solidariste promosse a livello europeo da pensatori come Marx, Mazzini e Proudhon. San Terenzo ne ebbe due: la più grande fu quella fra gli operai del paese. Fondata il 1° gennaio del 1872, cinque anni dopo contava 120 soci, aveva entrate per 640 lire e spese per 600. Non c’è invece traccia di contabilità per la società tra i marittimi del paese, che il 12 dicembre del 1869 vantava 98 iscritti. Le due società il 2 dicembre del 1883 deliberarono di unirsi per fondare la Società di Mutuo Soccorso Fascio Marittimo Operaio che arrivò a contare quasi trecento soci. L’atto di fondazione porta la data del 1° gennaio 1884 e il riconoscimento avvenne con Regio Decreto del Tribunale di Sarzana del 19 agosto 1908. La “Cooperativa 1° Maggio” fu invece fondata da un meglio identificato Club Educativo ed aprì il primo punto di vendita riservato ai soci nella attuale Via Trogu nel 1884.
La Pubblica Assistenza.
La Pubblica Assistenza di San Terenzo risulta funzionante nel 1899. Nel suo vessillo, fatto pervenire da un anonimo negli anni ’70 alla Pubblica Assistenza di Lerici, figura il motto “Humanitate”. L’associazione apparteneva alle Croci Verdi, cioè quelle di formazione e tendenza repubblicana, anarchica o socialista (le Croci Bianche erano di tendenza monarchica o conservatrice, le Croci Oro appartenevano alla concezione aristocratica del lavoro, le Croci Turchine erano di derivazione contadina). Si sa che operò alacremente durante lo Scoppio di Falconara, in cui fu distrutta la sede. L’associazione ebbe una nuova sede nel Palazzo Milano (una delle nuove costruzioni offerte dalle varie città italiane). Poiché subito dopo si ebbe l’avvento del Fascismo con l’emanazione del decreto sulla monopolizzazione dei servizi pubblici, che imponeva la chiusura di tutte le associazioni, perché “i soli organi che possono e debbono svolgere finalità di interesse pubblico devono essere quelli creati, riconosciuti, o comunque controllati dallo Stato” la Pubblica Assistenza fu chiusa e nella sua sede si installò il Partito Nazionale Fascista. La notte fra il 24 e il 25 aprile 1945 la sede del P.N.F. venne assalita e bruciata, con tutti gli arredi. In tal modo andarono distrutti tutti i libri, i documenti ed i cimeli dell’associazione. Presso la sede della Croce Rossa di Biassa, che già era un Pubblica Assistenza, si trovano due grandi diplomi della Pubblica Assistenza di San Terenzo, rilasciati ai soccorritori provenienti da quel paese.
La Massoneria.
Il porto di Lerici fu in passato un punto nodale delle comunicazioni mediterranee ed europee. Ne fanno fede le numerose rappresentazioni divenute oggi oggetti d’arte, raccolte nel libro di Cocevari-Cussar. Logico che da qui passassero personaggi illustri, ed anche le loro idee. Gli armatori lericini della famiglia Giacopello furono intermediari con Mazzini per il trasporto di armi e per il trasferimento di fondi, e Ambrogio Giacopello fu esiliato e morì a Marsiglia per questa sua attività di sovversivo del sistema. I moti insurrezionali, le attività della Carboneria, il reclutamento dei giovani patrioti passava per Lerici (si veda la visita di arruolamento del medico Bolognini in Carbognano) ma anche per San Terenzo e per Pugliola. Mazzini stesso venne in segreto a Lerici. Le lapidi dei vecchi cimiteri storici mostrano le simbologie del compasso e della squadra e portano l’ideogramma del Grande Architetto dell’Universo. Uno strano caso di trasmutazione di simboli massonici si trova nella Pieve di Ameglia, all’interno della facciata. Qualcuno, nella lapide in marmo che ricorda tre illustri benefattori, cioè Carlo Fabbricotti, il Maestro Salvini ed un maestro scozzese, si è permesso di scalpellinare il marmo sovrapponendo il compasso alla squadra ed al mazzuolo, talché il vulnus bianco diviene insopportabile. Deve essere avvenuta qualche faida interna di cui non si conoscono le ragioni ed è anche difficile capire come ciò sia potuto avvenire. Ciò denota comunque una presenza assai marcata di logge nel nostro territorio. Prova di ciò si ha anche nel fatto che, dopo il passaggio della Massoneria Italiana dall’obbedienza inglese all’obbedienza francese, alcuni emissari partirono da Parigi per sentire cosa pensassero di ciò le Logge di San Terenzo, Lerici e Sarzana. Si deve ritenere che anche il Grande Oriente di Pugliola venisse interpellato? Vanto di San Terenzo è anche aver dato i natali al padrone Azzarini, detto “barba ipsilonne”, il salvatore di Garibaldi, nonché di aver dato i natali ad alcuni garibaldini, fra cui colui che fasciò le catene delle ancore del vapore “Piemonte” con paglia e stracci, per non far sentire il rumore dello stacco della maglia di catena dal “barbotin” ai soldati napoletani che si trovavano di guardia nel porto.
Le beghe, gli scontri, i lazzi, le prese in giro con i Lericini.
Qualcuno si stupisce della marcata differenza dialettale fra due paesi, entrambi sul mare, e così vicini. L’influenza antropica su San Terenzo proviene da Pitelli e da Arcola, che fu proprietaria della costa fino al 1245. Entrambi, come giurisdizione ecclesiastica, appartenevano al territorio della Pieve di Trebiano, la cui giurisdizione passò poi alla Parrocchia di Pugliola. Sia Lerici sia San Terenzo si staccarono dalla chiesa matrice di Pugliola, ma avvenne che per un certo tempo la Parrocchia di Lerici amministrò Pugliola, che rimase senza sacerdote (ed avvenne che per questa offesa gli uomini di Primacina uccisero il parroco di Lerici, mentre transitava in loco per raggiungere Sarzana). Durante questa vacatio i confini della Parrocchia di Lerici si ampliarono fino al Portiola, venendo a comprendere le ville agrarie di nuova costruzione, i cui abitanti continuarono a frequentare la chiesa di San Terenzo, sia per le Sante Messe sia per le cerimonie dei sacramenti (battesimi, cresime, matrimoni, funerali). Ciò creava problemi di decime e dette luogo ad una causa che durò due secoli e che fu risolta poi a favore della Parrocchia di San Terenzo. Durante questo lungo periodo di lite religiosa avvenne anche che i Lericini si fecero dipingere una Madonna che è un “unicum” nella iconografia mariana, perché il quadro presenta due Madonne con il Bambino, che risultano simili alla Madonna Bianca di Porto Venere e alla Madonna dell’Arena.
Si noti che questa Madonna doppia è chiamata Annunziata, pur essendo ricca di due Bambin Gesù.
I Santerenzini non vollero mai andare a Lerici per discutere le cause presso il Palazzo di Giustizia genovese, sito nella attuale Piazza Garibaldi, ospitante oggi una filiale di banca (e contenente all’interno strutture della antica chiesa di San Giorgio, “in loco Lerice propre ubi dicitur sancto georgio, iuxta portum ipsius loci” come in atto del 7 ottobre 1166 stipulato fra Genova e Lucca).
I Santerenzini chiamavano i Lericini figli di Giuda, come riferisce il Canonico Gonetta, per via dell’albero di fico nato sul piazzale superiore del castello di Lerici, e malvolentieri subivano le angherie per effettuare lavori di pubblica utilità, come si legge in un documento del 15.11.1822: “…lavori di ristoro da eseguire in codesta strada romana, mediante la distribuzione di giornate in tutte le parrocchie componenti il Comune in proporzione alla popolazione”.
Oggi si assiste ad un fenomeno inverso. L’Amministrazione Comunale è composta di cittadini che provengono dal territorio di San Terenzo, perché la popolazione lericina è in gran parte costituita di “foresti”, qui arrivati per un “buen retiro”, dopo esservi giunti per fare i bagni di mare e dopo aver acquistato una “seconda casa”. I giovani lericini, a causa della notevole lievitazione della rendita immobiliare, sono infatti costretti a cercare casa nei comuni vicini, di Arcola e Sarzana. Inoltre la conformazione ad anello chiuso della viabilità lericina, con la conseguente mancanza di parcheggi, costringe i residenti all’acquisto di box, il cui prezzo è notevolmente più elevato rispetto agli standard di mercato di altre località. Il “genius loci” futuro sarà plasmato dai Santerenzini ?