I ROMANI NEL PROMONTORIO DEL CAPRIONE
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Si legge in Tito Livio “Storia di Roma” XXXIX – XX: “…Q. Marcius in Ligures Apuanos est profectus…Nam tamen oblitere famam rei male gestae potuit: nam saltus unde eum Ligures fugaverunt Marcius est appellatus”. Il luogo della ignominiosa sconfitta dei Romani da parte dei Liguri Apuani nel 186 a.C. è divenuto quindi un perfetto toponimo latino, ilSaltus Marcius, in quello che oggi conosciamo come Canale del Marzo. Nel luogo della battaglia vennero in passato trovati dei sepolcreti (Promis, Falconi) e secondo Pietro Righetti anche l’iscrizione “Hic iacet corpus quintii martii rom.coss.” in un sepolcreto individuato nel 1777, con dentro un elmo ed un vaso di pozzolana con ossa combuste, recante la scritta suddetta. Secondo racconti di contadini che avevano terreni lungo il Canale di Romito (in antico Canale di Remaggio, cioè Rivus Major) nel fare le buche per piantare le viti (secondo la tradizione profonde almeno tre metri) furono rinvenute placche rotonde di piombo tipiche delle corazze romane leggere, fatte di cuoio e di piastroni di metallo sul petto. Ciò fa pensare che i Romani siano penetrati nel Caprione dal Canale di Romito e quando furono costretti a muoversi in fila ristretta ed allungata siano stati attaccati dai Liguri e, non potendosi difendere, essi cercarono di fuggire in basso verso il fiume Magra, lasciando sul campo quattromila morti e perdendo tre insegne delle legioni e undici degli alleati. In altri luoghi di Lunigiana si pretende però di ritrovare il luogo della sconfitta dei Romani. Interesserà qui ricordare che i Romani dovevano ripulire la costa dai Liguri, perché utilizzavano il Portus Lunae (cioè il Golfo della Spezia) per ragioni di politica navale, infatti nel 195 a.C. Marco Porcio Catone fece qui convenire venticinque navi, in attesa del raggruppamento delle milizie terrestri per una spedizione in Iberia. Già nel 204 a.C. viene riportato che una grande flotta proveniente dall’Iberia venne qui ospitata, ed a bordo vi era il poeta Ennio, che ne rimase affascinato. Infatti sulla frequentazione del “Portus Lunae” per scopi turistici sovviene il giovane poeta Aulo Persio Flacco, che nelle “Satire” scrive: “Per me vi sono ora i tepori della ligure spiaggia e l’inverno del mio mare, dove gli scogli formano un ampio fianco e il lido si inarca in un profondo seno. Venite a visitare il Porto di Luni, o cittadini, ne vale la pena. A ciò esorta il cuore di Ennio”! Dalla descrizione del poeta, e da indiscrezioni ricevute dall’insegnante di religione dell’Istituto Nautico della Spezia, che era parroco del Muggiano e cappellano degli omonimi cantieri navali, ho saputo di ritrovamenti di tracce di pavimenti a mosaico sotto alcune abitazioni del borgo, che confermerebbero l’esistenza di ville sul mare, in un luogo ricco di acque, anche termali, tanto da dar luogo al toponimo “Cento Chiavi”, cioè cento chiavichelle, ossia molti piccoli rivi d’acqua. Memoria di queste acque si ha nel Registrun Vetus del Comune di Sarzana, in atto del 27 Giugno 1245, in cui si legge:”…portu maris Centum Clavium, et Plagiis, et Arenis, et Lapidibus in dictis plagiis et confinibus, et de iurisdictione dictorum locorum et de portulo hospitalis Centum Clavium et Balneorum in dicto portu existentium”. Queste acque termali sgorgano ancora oggi nel golfo e modificano la temperatura dei fondali. Di queste acque parla anche il Targioni-Tozzetti (1777) indicandole come scaturigini di acque medicinali dette “Li Bagni, massime nei luoghi detti San Bartolomeo e il Mulinello, dei quali anticamente si servivano gli infermi”. Queste acque termali scaturivano in quota nei Monti Branzi, sopra Lerici, fra il 20.000 e il 15.000 a.C. e ne sono state trovate le concrezioni saline, analizzate presso l’Università di Parma. Le analisi, ripetute in questi anni, delle acque scaturite agli Stagnoni durante la costruzione dei piloni della bretella autostradale Scoglietti – Santo Stefano, ma eseguite presso l’Università di Genova, danno gli stessi risultati, di acque simili a quelli di Bagni di Lucca e di Montecatini Terme. Si noti come sotto i Monti Branzi, in località Senzano (toponimo romano da Sentius) si trovino i ruderi di una cisterna romana a tre arcate, presso la quale sono stati rinvenuti molti cocci, fra cui un culetto d’anfora portante la scritta Rufus, relativa a una officina attiva a Luni ed Arezzo nel I secolo. Per le stesse ragioni climatiche descritte dal poeta Aulo Persio Flacco è stata costruita la villa romana con ipocausto alla foce del fiume Magra, di cui sono visibili le vestigia a Bocca di Magra. In quella zona del fiume, secondo i documenti del Fondo dell’Abbazia del Tino, si deduce che vi si potevano fare le cure dei fanghi, ed infatti in atto del 1060 il marchese Adalberto dona dei beni immobili esistenti in Fenoclarja al Monastero di San Venerio e l’atto è firmato “in loco Pantaleo feliciter”, e Pantaleo, in dialetto di Ameglia, è oggi “Pantaiè”, località assai vicina alla fonte ferrosa della “Ferrara”, ove nell’anteguerra si imbottigliavano ancora acque ferruginose. Poco più in basso, verso la foce, si rinvengono infatti i resti della villa romana con ipocausto, cioè con il riscaldamento sotto il pavimento, per potervi vivere con comodità anche in inverno.
Fino agli inizi del secolo scorso, alla foce del Magra si poteva scorgere il cosidetto “angelo”, termine derivante dal Latino angulus, cioè un faro romano, sul quale veniva fatto il fuoco per guidare le navi nell’oscurità, in modo che non finissero contro Punta Bianca, cioè la punta estrema del promontorio del Caprione, già oggetto del calcolo di latitudine e longitudine del geografo Tolomeo. I Romani non costruirono ponti sul Magra, perché sarebbero stati spazzati via dalla corrente impetuosa delle piene, ma fecero un guado in pozzolana nel punto più largo, in località Senato. Il toponimo non è però romano, ma pre-romano e pre-etrusco (çernatus) perché deriva dalla cena con cui gli anziani dei Paleoumbri preparavano i sacrifici alle loro divinità, da fare nel giorno successivo, scegliendo i vari animali a seconda delle dedicazione (cane, scrofa gravida, vitello, bue, capro ecc.). Da questa cerimonia sono derivati il termine latino senatore, collegato con il significato di anziano, ed il nome di Castruccio Castracani, perché kastrucie era l’anziano destinato a castrare il cane sacrificale, perché diventasse grasso. Nel luogo del Senato di Lerici si è rinvenuto il luogo detto “scoglio della Vecchia”, ove la Vecchia era la DeaMadre, così come lo è nel Massiccio Centrale di Francia, cioè indicata come “la Vielle”. Con il guado, detto poi “guado del cane”, perché in regime di acque basse potevano attraversarlo anche i cani, si poteva salire sul Caprione, all’altezza del tetralite di San Lorenzo al Caprione. Qui nel secolo XIII è stata costruita la chiesa di San Lorenzo, perfetta nell’allineamento equinoziale, che non si è mantenuta integra nel secolo successivo perché costruita sull’incrocio di una master fault con una linea d’acqua. Il campanile di questa nobile chiesa presenta nella parte bassa una finestra arciera in un contesto di muratura che sembra di tipo romano, e immediatamente il pensiero corre alla chiesa di San Giorgio di Barbazano, che anch’essa presenta ben due finestre arciere, e nell’orientamento tradisce un azimuth di tempio pagano, orientato verso il sorgere del Sole al solstizio d’inverno, cioè il Sole invitto (Sol invictus). La permanenza di toponimi chiaramente romani, come Barbazano (dialettale Barbasan, da Barbatus), Bavognano (dialettale Baugnan da batus, rovo), Carbognano (dialettale Carbognan, da Carbo) Serviliano (dialettale Sevigian, da Servilius), Senzano (dialettale Sensan, da Sentius), Marzo (dialettaleMarso da Saltus Marcius), Verazzano (dialettale Veasan, da Veratius) ci offrono, nel loro insieme, la certezza di una presenza romana diffusa nel Caprione. Nel pavimento della chiesa di San Lorenzo al Caprione è stata fatta una scansione con il georadar, ed è emerso che sotto la chiesa vi è un vano vuoto assai grande, che farebbe pensare ad una piscina o ad una grande vasca battesimale. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che si possa trattare di un mitreo, visto che molti soldati romani seguivano la religione del dio iranico Mitra. Che questo culto fosse presente in Luni lo si legge dal Canonico Gonetta che scrive: “Tra frammenti di bassi rilievi, un braccio del Dio Mitra in atto di infrosciare il Toro…” (pag.33 del “Saggio Istorico Descrittivo della Diocesi Luni-Sarzana”). Essendo la chiesa di proprietà privata non è possibile, per ora, effettuare alcuna ricerca nel sottosuolo. Secondo il Canonico lericino Don Luigi Rolla, un piccolo ponte romano sarebbe stato trovato nel Canale di Carbognano, all’altezza della torre di San Rocco, durante i lavori di costruzione della strada “Vittorio Emanuele”. Secondo un operaio del Cantiere Ansaldo di Muggiano (ora divenuto Fincantieri) nel fare lavori di allargamento dei moli sarebbe stata rinvenuta una edicola in marmo, subito inviata in discarica) che avvalorerebbe l’esistenza di un sito romano al Muggiano. Anche il Gonetta, sempre alla pagina 33, scrive che il Falconi pretende che Musano sia un toponimo di derivazione romana, mentre oggi lo si ritiene derivante, come l’analogo che è a Milano, dalla presenza di acque, secondo una radice indoeuropea moos, che si riscontra anche nella Mosa e nella Mosella. Così si racconta che in Barbazano sarebbe stata trovata una testa di personaggio romano. Importante sembra invece una iscrizione che il Gonetta ascrive fra quelle apocrife, che cita le Stazioni Ericine, cioè le stazioni di rimessaggio invernale delle navi, da ritenere situate fra Lerici e Muggiano: “Lunae. Hetruscae. Incolis. inquilinis q. Pop. Rom. amicitiam. B. M. a. mari. ad. Alpes. ad montes. Ligurum. Ad. Flumen. Aqua. Agros. imm. colere. Vectigal. A. viatoribus. Exigere. Portus. Ericinasque. Stationes. Hiem. tenere. concessit. P. Set. Coss.”. Conferma dell’utilizzo del golfo da parte dei Romani il Gonetta lo trova anche nei versi del poeta latino Silio Italico, cantore delle guerre puniche:
Tunc quos niveis exegit Luna metallis,
Insignis portu quo non spatiosior alter,
Innumeras coepisse rates et claudere pontum.
in cui si canta la grande spaziosità del Portus Lunae.
Un riferimento importante alla romanità del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, detta nel Medioevo Cala Solitana (Codice Pelavicino). La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni. Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera. Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata. Non se ne sa il perché, anche perché il Sindaco pro-tempore tenne nascosto il fatto. Forse perché troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere che i cercatori di datteri le hanno in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia..
Fino agli inizi del secolo scorso, alla foce del Magra si poteva scorgere il cosidetto “angelo”, termine derivante dal Latino angulus, cioè un faro romano, sul quale veniva fatto il fuoco per guidare le navi nell’oscurità, in modo che non finissero contro Punta Bianca, cioè la punta estrema del promontorio del Caprione, già oggetto del calcolo di latitudine e longitudine del geografo Tolomeo. I Romani non costruirono ponti sul Magra, perché sarebbero stati spazzati via dalla corrente impetuosa delle piene, ma fecero un guado in pozzolana nel punto più largo, in località Senato. Il toponimo non è però romano, ma pre-romano e pre-etrusco (çernatus) perché deriva dalla cena con cui gli anziani dei Paleoumbri preparavano i sacrifici alle loro divinità, da fare nel giorno successivo, scegliendo i vari animali a seconda delle dedicazione (cane, scrofa gravida, vitello, bue, capro ecc.). Da questa cerimonia sono derivati il termine latino senatore, collegato con il significato di anziano, ed il nome di Castruccio Castracani, perché kastrucie era l’anziano destinato a castrare il cane sacrificale, perché diventasse grasso. Nel luogo del Senato di Lerici si è rinvenuto il luogo detto “scoglio della Vecchia”, ove la Vecchia era la DeaMadre, così come lo è nel Massiccio Centrale di Francia, cioè indicata come “la Vielle”. Con il guado, detto poi “guado del cane”, perché in regime di acque basse potevano attraversarlo anche i cani, si poteva salire sul Caprione, all’altezza del tetralite di San Lorenzo al Caprione. Qui nel secolo XIII è stata costruita la chiesa di San Lorenzo, perfetta nell’allineamento equinoziale, che non si è mantenuta integra nel secolo successivo perché costruita sull’incrocio di una master fault con una linea d’acqua. Il campanile di questa nobile chiesa presenta nella parte bassa una finestra arciera in un contesto di muratura che sembra di tipo romano, e immediatamente il pensiero corre alla chiesa di San Giorgio di Barbazano, che anch’essa presenta ben due finestre arciere, e nell’orientamento tradisce un azimuth di tempio pagano, orientato verso il sorgere del Sole al solstizio d’inverno, cioè il Sole invitto (Sol invictus). La permanenza di toponimi chiaramente romani, come Barbazano (dialettale Barbasan, da Barbatus), Bavognano (dialettale Baugnan da batus, rovo), Carbognano (dialettale Carbognan, da Carbo) Serviliano (dialettale Sevigian, da Servilius), Senzano (dialettale Sensan, da Sentius), Marzo (dialettaleMarso da Saltus Marcius), Verazzano (dialettale Veasan, da Veratius) ci offrono, nel loro insieme, la certezza di una presenza romana diffusa nel Caprione. Nel pavimento della chiesa di San Lorenzo al Caprione è stata fatta una scansione con il georadar, ed è emerso che sotto la chiesa vi è un vano vuoto assai grande, che farebbe pensare ad una piscina o ad una grande vasca battesimale. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che si possa trattare di un mitreo, visto che molti soldati romani seguivano la religione del dio iranico Mitra. Che questo culto fosse presente in Luni lo si legge dal Canonico Gonetta che scrive: “Tra frammenti di bassi rilievi, un braccio del Dio Mitra in atto di infrosciare il Toro…” (pag.33 del “Saggio Istorico Descrittivo della Diocesi Luni-Sarzana”). Essendo la chiesa di proprietà privata non è possibile, per ora, effettuare alcuna ricerca nel sottosuolo. Secondo il Canonico lericino Don Luigi Rolla, un piccolo ponte romano sarebbe stato trovato nel Canale di Carbognano, all’altezza della torre di San Rocco, durante i lavori di costruzione della strada “Vittorio Emanuele”. Secondo un operaio del Cantiere Ansaldo di Muggiano (ora divenuto Fincantieri) nel fare lavori di allargamento dei moli sarebbe stata rinvenuta una edicola in marmo, subito inviata in discarica) che avvalorerebbe l’esistenza di un sito romano al Muggiano. Anche il Gonetta, sempre alla pagina 33, scrive che il Falconi pretende che Musano sia un toponimo di derivazione romana, mentre oggi lo si ritiene derivante, come l’analogo che è a Milano, dalla presenza di acque, secondo una radice indoeuropea moos, che si riscontra anche nella Mosa e nella Mosella. Così si racconta che in Barbazano sarebbe stata trovata una testa di personaggio romano. Importante sembra invece una iscrizione che il Gonetta ascrive fra quelle apocrife, che cita le Stazioni Ericine, cioè le stazioni di rimessaggio invernale delle navi, da ritenere situate fra Lerici e Muggiano: “Lunae. Hetruscae. Incolis. inquilinis q. Pop. Rom. amicitiam. B. M. a. mari. ad. Alpes. ad montes. Ligurum. Ad. Flumen. Aqua. Agros. imm. colere. Vectigal. A. viatoribus. Exigere. Portus. Ericinasque. Stationes. Hiem. tenere. concessit. P. Set. Coss.”. Conferma dell’utilizzo del golfo da parte dei Romani il Gonetta lo trova anche nei versi del poeta latino Silio Italico, cantore delle guerre puniche:
Tunc quos niveis exegit Luna metallis,
Insignis portu quo non spatiosior alter,
Innumeras coepisse rates et claudere pontum.
in cui si canta la grande spaziosità del Portus Lunae.
Un riferimento importante alla romanità del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, detta nel Medioevo Cala Solitana (Codice Pelavicino). La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni. Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera. Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata. Non se ne sa il perché, anche perché il Sindaco pro-tempore tenne nascosto il fatto. Forse perché troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere che i cercatori di datteri le hanno in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia..