ROMANITÀ E MEDIOEVO NEL CAPRIONE
La Romanità del Caprione. Tito Livio e il “saltus Marcius”
La Romanità del Caprione è affidata soprattutto alle fonti storiche. Fra
queste sovviene l’episodio di Tito Livio, che narra come «il passo dove
era stato messo in fuga dai Liguri fu chiamato Marcio», con riferimento
appunto al Console Q. Marcio, che subì una sonora sconfitta da parte dei
Liguri Apuani, tanto che i Romani uccisi furono quattromila, furono perse
tre insegne della seconda legione e undici vessilli degli alleati Latini:
«Perfectis quaestionibus prior Q. Marcius in Ligures Apuanos est profectus…Prius sequendi Ligures finemì Quam fugae Romani fecerunt… Non tamen obliterare famam rei male gestae potuit: nam saltus unde eum Ligures fugaverunt Marcius est
appellatus» (Vitali C., Storia di Roma, Libri XXXIX-XL, 1973, pp. 52-55).
La grande vittoria degli Apuani è rivendicata però dai Bagnonesi, che
hanno nel loro territorio un Pian del Marzo, e dai Castelnovesi, che hanno
Marciaso. Nel Caprione esiste il toponimo dialettale “Canae der Marso”
che da “Campo de Già” scende verso la Magra. Il toponimo figura anche
nella cartografia settecentesca come “Canale del Marzo” (si veda Studi di Lunigiana,
pp. 111-112), ma soprattutto è importante
notare che nel Codice Pelavicino esiste una pergamena del 1218 dove
è riportato l’idronimo “Canale de Casa Marcii”.
Ciò fornisce un buon indizio per accreditare l’episodio narrato da Tito
Livio nel Caprione. A ciò va aggiunto, in termini di ricerca storiografica,
che, secondo lo studioso arcolano Pietro Fiamberti, che scrisse nel 1835,
sarebbe stata trovata nel Canale del Marzo, nel 1777, una tomba con
un vaso recante l’iscrizione “Hic Jacet Corpus Quintii Martii Rom.
Coss.”. Ciò è stato riportato nella trattazione del toponimo “Caprione”
nel Tomo III della Raccolta di toponimi del territorio di Lerici, ove
si legge: «In corrispondenza del sito della battaglia del 186 a.C. si
rinvennero dei sepolcreti; ne narrano vari autori, fra cui il Promis
(Dell’antica città di Luni e del suo stato presente, Memoria Accademia
delle Scienze, Torino 1839), il Falconi (Iscrizioni del Golfo di Spezia,
Pisa 1874) e Pietro Righetti di Arcola.
Agostino Falconi all’osservazione n. 4 riporta:
“Iscrizione spuria stata rinvenuta, secondo Pietro Rigetti (a) sul Monte
Caprione, presso il rivo del Marzo: Hic jacet corpus quintii martii rom.coss.
In calce è riportata la nota (a): Vedi a pag. 22 delle Osservazioni
critiche sui cenni storici del Comune di Arcola del Dottore Giovanni
Fiamberti. Rintracciato detto scritto se ne riproducono i contenuti e le
relative note, che corrispondono, ampliandole, con le notizie fornite
dal grande studioso Carlo Promis.”
Dalle Osservazioni critiche di Pietro Rigetti si legge:
“… un sepolcro scoperto l’anno 1777 nel Monte Carpione presso il
canale del Marzo con entro un elmo (5), ed un vaso di pozzolana pieno
di cenere e di frante ossa con l’iscrizione ‘Hic jacet corpus Quintii Martii
ROM.COSS’ (6) appalesa ad evidenza la rotta ch’essi diedero al Console
romano nel luogo appunto che al dir di Livio fu già sede dei loro maggiori
(1)”. Si riportano le note:
Nota (5) Quest’elmo fu poi comprato da un certo cotal Antonio Salvetti già calderajo, or macerato dalla miseria e reso da molti anni impotente. Costui in Sarzana sua patria fattolmi venire a bella posta in casa dello Ill.mo D. Domenico Canonico Piccini mio amico, me ne confermava la compra da lui fatta.
Nota (6) Vedi gli annali di Genova: De dominii sereniss. Genuensi Reipubb. in
mari ligustico, citati da un antico Mss. che ho in questo momento sotto gli occhi.
Nota (1) Sembra dunque fondata l’opinione di quei tali che asseverano essere la
rotta del Console Marzio in quel luogo avvenuta che vien detto Marciasio nel
Marchesato di Fosdinovo; oltre il suddetto epitaffio è la storica nostra relazione
afforzata dall’autorità di Livio, il quale ne dice assai chiaro che il luogo ove i Romani
furono dai Liguri battuti fu in appresso chiamato Marzio.»
Ritengo opportuno riportare quanto ho scritto alla pag.111 del libro
Studi di Lunigiana: «Secondo alcuni l’imboscata fu tesa all’esercito
romano che si era addentrato nel canale di Romito, come mostrerebbero
alcuni ritrovamenti fatti nell’ultimo dopoguerra da alcuni contadini
che scavavano fosse per piantare viti. Poiché i morti furono quattromila,
così dice Livio, ma si ritiene che il numero possa essere stato gonfiato,
si deve ritenere che la fuga delle avanguardie romane possa essere
avvenuta anche dal “saltus Martius”, cioè avanguardie già salite sul
Caprione e retroguardie ancora transitanti nel canale di Romito.»
Non sarebbe altrimenti stato possibile avanzare con un esercito di oltre
quattromila uomini in un terreno così impervio, salvo addentrarsi nel
Canale ora chiamato di Romito, in antico chiamato Canale di Remaggio,
nome che deriva appunto da Rivus Major.
Sarebbe stato possibile anche in un altro modo, cioè disponendosi in
tecnica di guerriglia, avanzando in ordine sparso in piccoli gruppi,
cosa che i Romani non avevano ancora capito, tanto che avanzarono
con le insegne e con i vessilli, che persero inevitabilmente nella
spasmodica fuga, tanto che «prima cessò l’inseguimento dei Liguri
che non la fuga dei Romani.»
Un guado romano nel Magra?
Ennio Silvestri, nella seconda edizione del libro Ameglia nella storia
Lunigiana, alla pagina 73, scrive: «Di fronte al Canale del Marzo, nella
piana omonima che già era formata in epoca romana (si osservino le
altimetrie) era il punto più stretto del corso del Magra.»
Aggiunge il Silvestri che negli Statuti sarzanesi del 1330, al capitolo
“De puntis faciendis”, si accennava a un «puntem de Cursu Blaevi
subtus ripam flumninis.» Può darsi che i sarzanesi abbiano fatto un ponte
proprio in continuità con il cosiddetto “corso delle messi”, cioè la
strada dritta che portava ai campi e al Magra, ma è ben difficile che
questo ponte abbia potuto sfidare i secoli, perché ponti ben più moderni
sono crollati nell’alveo della Magra. Personalmente ho vissuto l’episodio
di stare per entrare nel ponte, diretto a Romito Magra, e di vedere le
spalline in mattoni rossi che cominciavano a sgretolarsi. Una gran frenata,
una fulminea marcia indietro, per poter vedere il ponte sgretolarsi.
Era il 1967 ed era un ponte nuovo, costruito con tecniche moderne dopo
la Seconda Guerra Mondiale.
I Romani, maestri nel costruire ponti, potrebbero aver valutato la
impossibilità del costruire un ponte nella Magra, e avere invece costruito
un guado. Si deve infatti valutare che duemila anni fa il mare non era molto
lontano dalla Piana del Marzo, e ciò spiegherebbe anche il toponimo
etrusco “Pentema” (cippo di confine) poco più in alto, presso San Genisio,
al di sopra dell’attuale nuovo ponte. Secondo il Silvestri, in questa zona
vi fu anche il ritrovamento di monete romane. La risorsa del guado ha
generato il successivo toponimo di “Guado del cane”, ma la prova
provata si è avuta con l’affioramento di tratti di conglomerato di malta,
venuti alla luce nel 1977 a seguito dell’abbassamento del letto del fiume
e del prelevamento di inerti, proprio nella “Piana del Marzo”. Tecniche
costruttive simili fanno pensare proprio a opere della romanità.
La villa romana di Bocca di Magra
Nella estrema punta del promontorio è emersa la presenza di una Villa
Romana con ipocausto, cioè una villa dotata di riscaldamento a pavimento,
nella parte padronale, che sancisce l’importanza del Caprione come
luogo di svernamento di famiglie ricche dell’aristocrazia romana.
Il sito è stato scavato ed è documentato dalla Sovrintendenza, che lo ha
classificato come “Villa marittima di età imperiale (I sec. a.C- IV sec. d.C.)”.
Oltre al clima, una delle ragioni per cui è stato scelto quel sito per
costruirvi una villa potrebbe derivare dalla vicinanza delle sorgenti
ferrose della Ferrara, con i relativi fanghi, che hanno lasciato ancora
oggi il toponimo dialettale “Pantaiè”. Va detto che questa ipotesi è
sostenuta dalla lettura delle Carte del Monastero di San Venerio
del Tino, ove vengono citate le donazioni dei Marchesi Obertenghi
al monastero:
– “actum loco Pantaleo feliciter” (atto del 1060);
– “loco dicto Pantea”, presso la chiesa di “Sancti Mauricii”
(atto del 1276);
e dalla lettura della pergamena del Codice Pelavicino del 1276,
in cui è citato il luogo “Pantaleo”.
Stupisce scoprire che, in un luogo che denota presenza di pantano, si
firmassero atti ufficiali dei Marchesi Obertenghi, massimi signori di
Lunigiana, e non per ragioni impellenti, cioè in condizioni di estrema
necessità (guerre, sommosse, ecc.), bensì in condizioni di grazia (“feliciter”).
È da ritenersi che i Marchesi fossero qui attratti dalle virtù curative
delle acque ferrose, efficaci per le malattie del sangue, nelle anemie, con
effetti anti-depressivi e anti-stress, nonché dai fanghi utili per
curare le artrosi. A completamento dell’indagine va detto che la studiosa
Gabriella Chioma, nell’articolo “Dal fiume Agau al corso del Lagora”,
riporta la notizia che quest’acqua ferrosa «ai primi del nostro secolo
sarebbe stata messa industrialmente in commercio… col nome di acqua
minerale della Ferrara.» Questa analisi parrà a molti priva di fondamento.
Va però ricordato che, in Latitudine eguale a quella della Fonte della
Ferrara, esisteva dall’altro lato del Caprione, nel versante a mare, il
toponimo “Terme di Guglielmo”. Secondo il Silvestri le terme erano
romane (Ameglia nella storia…, p. 308).
Questo toponimo storico si rinviene nella carta del Brigadier Generale
Vinzoni, in vicinanza di Zanego-Groppina, sopra gli spiaggioni della
Marossa. In questo stesso territorio vi era una miniera di minerale di
ferro, per il cui sfruttamento risulta stipulato nel 1281 un contratto:
«28 marzo 1281, Rosso, pomellerio… cede a Moroello Ferrario da Pignone 1/12 d’una miniera di ferro trovata al Corvo, comprata da Guglielmo d’Ameglia, confinante
inferiormente con il lido del mare, superiormente con la costa di detto
monte del Corvo, da un lato con la terra degli uomini di Barbazano,
e dall’altro colla terra della chiesa di S. Croce» (Francesco Poggi, Lerici e il suo castello, Vol. I, p. 243).
I continui grandi sconvolgimenti che affliggono il litorale, attraversato
da master-faults, hanno evidentemente fatto scomparire il luogo ove
esistevano queste terme. Rafforzano inoltre la storicità della
frequentazione del promontorio del Caprione e del Corvo da parte dei
Romani i versi scritti dal poeta latino Aulo Persio Flacco, che amava
godersi il tepore invernale della riviera bagnata dal mar Ligure, in un
golfo protetto da un grande promontorio:
«… mihi nunc Ligus ora
intepet hibernatque meum mare, qua latus ingens
dant scopuli et multa litus se valle receptat.»
Dalla traduzione «…qui dove enormi scogli formano protezione ad un
profondo golfo con molti approdi» sembra potersi dedurre che il poeta
si riferisca al seno di Muggiano, protetto dalla traversia dominante
dalla Punta del Calandrello, e ricco di acque (se ne veda la trattazione
nel quaderno del territorio a titolo Raccolta di toponimi…, Tomo I,
voce “Bagni, bagnuolli”; e nelle voci “Bagni” e “Muxano” nel libro
Studi di Lunigiana).
Secondo quanto ci raccontava, prima della lezione
vera e propria, il defunto parroco di Muggiano, il famoso Don Aurelio,
benvoluto da generazioni e generazioni di capitani e macchinisti dell’Istituto Nautico “Nazario Sauro” della Spezia (il quale, stranamente,
ogni tanto accennava che in futuro sarebbe stata inventata una macchina
per poter riudire le voci, fra cui quella di Giulio Cesare quando arringava
le truppe per passare il Rubicone), facendo dei lavori attorno alla chiesa,
e in civili abitazioni circostanti, sarebbero stati trovati dei pezzi di
pavimento a mosaico (di una villa romana?), mentre un’altra costruzione
sarebbe stata più in basso, ove ora è il cantiene navale. Così, secondo
racconti di operai, alcuni decenni fa, durante lavori di sterro all’interno
del cantiere navale, sarebbe emerso un pezzo di marmo lavorato, portato
in discarica. In ogni caso, ad affermare la presenza di costruzioni romane
a Muggiano, bastano i reperti riportati in una fotografia di Rodolfo
Zancolli del 1939, che risultavano venuti alla luce nel 1918 (foto N. 109,
“L’Archivio Fotografico del Comune della Spezia”).
L’angulus o angelo o pilastro alla foce della Magra
Fino a qualche decennio fa era possibile vedere, in mezzo al mare, a
poche decine di metri dalla foce della Magra, una costruzione, o meglio
un rudere, che veniva chiamato pilastro o angelo (da angolus) e che è
da ritenersi un resto di una struttura al servizio del porto romano di
Luni, forse per funzionare come fanale. Questa costruzione sarebbe
da mettere in collegamento con altra struttura similare presente ancora
nelle rovine di Luni, nel settore più vicino a quella che doveva essere
una linea di battigia, calcolata con un arretramento del mare, causato
dal trasporto degli inerti dalla Magra, di almeno mille metri.
Personalmente ricordo di aver visto in Luni, cinquant’anni fa, in
prossimità di un grande pioppo, un tratto di strada più elevato, che
aveva il cordolo in mattoni e portava infissi degli anelli, simili a quelli
che si vedono nei moli per ormeggiare le barche. Lo attraversai con la
bicicletta e mi fermai per vedere gli anelli. Verosimilmente si trattava di
un molo del porto della città di Luni (non il Portus Lunae di cui parla
Strabone) che avrebbe potuto essere dotato, come fanali di atterraggio,
di un sistema di fuochi, di cui uno in prossimità del promontorio, per
evitare alle navi di andare in secca o contro gli scogli. Per l’appunto
l’Angulus o Angelo, visibile in una bella fotografia degli Alinari, fatta
nel 1887, riprodotta al N. 87 del catalogo “Archivio Fotografico del
Comune della Spezia” con la seguente didascalia: “Lo Scoglio detto
dell’Angelo, nucleo di calcestruzzo di Epoca Romana”.
La cisterna romana di Senzano
Dalla cava dei Branzi, ove è stata rinvenuta la prova delle concrezioni
saline dovute alle acque termali che ora sgorgano a mare lungo la
costa di levante del golfo, si vede la sottostante dorsale di Senzano,
(in dialetto Sensan) ove è stata rinvenuta una cisterna romana.
Il toponimo è di origine latina, dal gentilizio Sentius, uno dei più
bei toponimi latini del Caprione e del Corvo. Gli altri sono:
Balognano (Baugnan), di incerta etimologia; secondo il Flecha
potrebbe derivare da un fundus Volumnianum, che
si ritrova anche come saltus Volumnianus. Forse
toponimo di origine etrusca dalla divinità Voltumna?
Barbazano (Barbasan), dal gentilizio Barbatus;
Carbognano (Carbognan), dalla gens Carbo;
– Sepiano o Scipiano (Sepian), dal gentilizio Scipius o da Seppianus?;
– Serviliano (Sevigian), dal gentilizio Servilius;
– Verazzano (Veasan), dal gentilizio Veratius o, secondo alcuni, dalla
indicazione dei veterani ai quali, dopo aver vinti i
Liguri, era stata assegnata una porzione di territorio
di 51 Jugeri e mezzo (da veterius).
Il sito di Senzano è molto interessante perché, oltre a molti cocci romani,
vi è stato rinvenuto un fondo di anforetta portante inciso il timbro dei
produttori, i fratelli Rufus, operanti ad Arezzo e a Luni nel I sec.
d.C., reperto che è stato segnalato e consegnato alla Sovrintendenza.
Non è solo questo che rende interessante il sito, bensì la presenza di un
muro di buona fattura che farebbe pensare a un recinto di difesa, alla
presenza cioè di un presidio di guardia a un sito di approvvigionamento,
un posto tappa. La cisterna è all’interno di un terreno privato e non è
visitabile. È molto interessante notare come si abbia corrispondenza fra
il toponimo latino e la presenza di reperti romani. Ciò si verifica anche
in Carbognano, luogo ricco di acque sorgive. Anche qui sono stati
rinvenuti cocci di tegoloni romani, senza però poter risalire a una
qualche tipologia di costruzioni. Secondo alcuni i cocci trovati a
Carbognano non sarebbero derivati da costruzioni in loco, bensì
sarebbero scivolati dall’alto, proprio da Senzano, per dilavamento
dei terreni. Nel sito di Sepiano esisteva una torre da guardia, costruita
nel 1487, che in seguito venne usata come punto di triangolazione del
territorio. Il toponimo è citato come “vineas de Sepiano” in un documento
del Codice Pelavicino del 1196.
Secondo il racconto del Canonico Monsignor Luigi Rolla, nell’Ottocento
sarebbero state rinvenute tracce di un ponte di origine romana nella
piazza di Lerici, per l’attraversamento del Canale di Carbognano.
Una analoga notizia, che narra della presenza romana in Lerici, ci viene
dal Falconi, che riporta quanto sarebbe stato scritto in una lapide relativa
alle Stazioni Ericine, cioè alla stazioni di rimessaggio invernale delle navi
nel Golfo della Spezia, l’antico Portus Lunae. Secondo Ippolito Landinelli
questa lapide sarebbe stata in Sarzana, in Casa Mascardi, e un’altra simile
sarebbe stata in Roma, nel palazzo del Cardinale Montepulciano, in
Via Giulia:
S.C.
LUNAE HETRUSCAE
INCOLIS INQUILINISQ.
POP.ROM.AMICITIAM B.M.A
MARI AD ALPES AD
MONTES LIGURUM
AD FLUMEN APUAN.
AGROS IMMU. COLERE
VECTIGAL A VIATORIBUS
EXIGERE PORTUS
ERICINASQUE STATIONES
HYEM. TENERE CONCESS.
CONSS.
Indipendentemente dal fatto di dover riconoscere se la lapide fosse
vera, sembra contenere una veritiera affermazione, e cioè che fosse
utilizzato il golfo, o meglio il Portus Lunae, per il rimessaggio invernale
delle navi. Sulla collocazione del Portus Lunae nel golfo della Spezia
esiste una profonda spaccatura fra gli studiosi sarzanesi e spezzini.
Sembra però impossibile accettare l’esistenza di una fondata ragione
per una simile diatriba, se non il campanilismo. Lo scritto di Strabone
è assai preciso e non lascia dubbi:
«La città non è grande; il porto, invece, è molto grande e molto bello.»
Già da questa prima descrizione si deve capire che bisogna cercare
altrove, e non a Luni o nella sua piana, il Portus. Non solo, ma viene
fornita una ulteriore specificazione: «… esso racchiude nel suo perimetro
molte rade, tutte profonde.»
Per chi conosce la storia dei trasporti degli inerti da parte della Magra
viene il dubbio che il golfo determinato dall’estuario di questo fiume,
a carattere torrentizio, possa permettere dei fondali profondi, come
invece sono i fondali all’interno del golfo, che non vengono
modificati da alcun apporto di fiumi.
Sovviene in questo senso la Legge di Ferrel, che indica come il moto
dei filetti fluidi subisca l’effetto della rotazione terrestre, per cui le
acque più veloci e vorticose della Magra vengono sospinte verso la
ripa del promontorio del Caprione (destra idraulica), lasciando le acque
più lente verso la sinistra idraulica, con conseguente deposito di inerti
che fanno diminuire i fondali e fanno arretrare la linea della battigia.
La città di Luni finì, oltre che per terremoti e incendi, proprio per
l’interramento del suo porto, così come più tardi si insabbiò il
Porto di San Maurizio o della Seccagna, alla foce della Magra.
Continua Strabone dicendo che il Portus Lunae «offre anche tutti
i vantaggi che ci si attende da una base navale utilizzata dagli uomini
aventi imposto la loro talassocrazia su un mare così vasto e per lungo
tempo.» Trattasi ovviamente degli Etruschi, che avevano certo altri
porti, ma che non potevano trovare altrove una rada così grande e così
protetta come il Golfo della Spezia, tant’è vero che è tutt’oggi una base
navale della Marina Militare Italiana, dopo essere stata scelta da
Napoleone per fondarvi una grande base navale e la città di Napoleonia.
Nel suddetto senso si pronuncia anche il traduttore di Strabone dell’Università
della Sorbona, che indica come «l’expression latine Lunae
Portus, mentionnée déjà par Ennius, Ann., fr. 16 Vahlen, et rapportée
à la forme semi-circulaire du golfe de la Spezia. Cf School. Pers., VI, 1
et 9 portum in modum lunae factum. La source est ici Posidonius.»
In questo senso sembrano concordare anche i versi di Silio Italico
(Lib.VIII), che denotano soprattutto la grande estensione del porto,
attraverso l’uso di aggettivi e di forme comparative, che possono soltanto
riferirsi al Golfo della Spezia:
«Tunc quos a niveis exegit Lunae metallis
Insigni portu, quo non spatiosor alter
Immensasa coepisse sic rares, et plaudere pontum…»
Lucano invece ci assicura che le navi più pesanti, costruite con il
legno di ontano (alnos), che ha un elevato peso specifico, non
potevano entrare nella Magra:
«… nullasque vado qui Macra moratus
Alnos, vicinae procurrit in aequora Lunae…»
Tutte le fonti antiche sembrano quindi concordare.
La nave affondata nel seno di Calasolitana (La Caletta di
Maralunga)
Nella costa orientale del golfo si notano due toponimi assai simili,
Maralunga e Maramozza, definiti morfologicamente dagli aggettivi
italiani, ma con una base molto più antica, “marra”, connotata dalla
caduta dialettale di una “r” in entrambi, che potrebbe essere pre-
latina. Il termine viene a identificare sia uno strumento per incidere
la terra o il legno, a base larga, ad esempio il marrapicco, anche detto
marrascura, utilizzato per pulire la corteccia degli alberi di olivo,
portante da un lato la terminazione come l’ascia e dall’altro come la
scure, sia per indicare la marra dell’ancora, sia per indicare un torrente
di montagna, sia per indicare un deposito di detriti. Nello Straviario
l’Ambrosi riferisce che «per la Liguria Nino Lamboglia aveva
postulato, accanto a corso d’acqua, anche il signifcato di “scoscendimento
alluvionale, sasso, roccia.” Questi due ultimi significati sembrano
attanagliarsi bene al nostro caso.»
Fra le due penisolette si ergeva in antico una piccola lingua di terra, che
aveva dato luogo al toponimo “Calasolitana”, citato in una pergamena
del Codice Pelavicino del 20 luglio 1283: «quam et quod et quas habet,
tenet et possidet in Barbazano et pertinenciis et specialiter in M.rlamoza
et Calasolitana.» Nella carta del 1817 del Genio Militare, redatta da G.B.
Chiodo e da S. Balbo, attualmente conservata a Firenze presso l’I.G.M.,
e portante il titolo “Pianta del Porto di Lerici nel Golfo della Spezia con
l’indicazione dei lavori progettati per il suo miglioramento”, è possibile
verificare come l’attuale “scoglio del Macellaio”, che è all’interno del seno
di mare delimitato da Maralunga e Maramozza, era prima congiunto con
la terraferma. Questa carta è stata pubblicata alla pag. 274 del libro
Carte e cartografi in Liguria (Quaini M., 1986).
Questo particolare è molto importante, perché consente di capire come
sia stato possibile inviare alla Sovrintendenza Archeologica della Liguria
una segnalazione su una possibile presenza di reperti subacquei, relativi
a un tempio franato in mare oppure derivati da un naufragio.
Le notizie che circolavano a Lerici parlavano di uno strano oggetto rotondo,
che compariva alla Caletta in particolare condizioni del fondo sabbioso.
Secondo alcuni poteva addirittura essere un oggetto relativo agli sbarramenti
subacquei della Seconda Guerra Mondiale. Preso atto della franosità
della costa, dimostrata da più episodi geologici accaduti in varie epoche
(la scomparsa delle Terme di Gugliemo sopra alla Marossa,
del promontorio che difendeva l’approdo di Barbazano e
della Tana del Serpente all’estremità del Corvo), la scomparsa della lingua
di terra di Calasolitana avrebbe potuto trascinare a mare qualche antico
tempio, costruito in quel pittoresco punto della costa. Da ciò nacque una
discussione nella Sezione Ecologica dell’Associazione di Pubblica
Assistenza di Lerici, che coinvolse anche il rappresentante di Italia
Nostra, geometra Francesco Ginocchio, che portò a una segnalazione
alla Sovrintendeza Archeologica per la Liguria, fatta su carta intestata
dell’Associazione di Pubblica Assistenza di Lerici.
Le ricerche effettuate hanno messo in luce non la favoleggiata traccia
del tempio di Venere Ericina, bensì un relitto di nave oneraria romana
affondata, adibita al trasporto di grandi pezzi di colonne destinate a
un qualche costruendo tempio, nave probabilmente colta da maltempo
mentre navigava al largo. Sorse però un’altra ipotesi, che la nave non
navigasse al largo e che potesse esistere un progetto di costruire un
tempio proprio sulla Punta di Maralunga, ove è possibile verificare uno
scavo fatto nella viva roccia per ottenere tre grandi piattaforme a gradoni,
sul cui uso nulla si conosce.
Dopo l’acclarato ritrovamento della nave
affondata e delle parti di colonna trasportate, inspiegabilmente si è alzata
in Lerici una sarabanda per capire di chi fosse il merito della segnalazione.
Vi fu anche chi disse di aver egli fatto in precedenza una segnalazione, non
scritta, alla Sovrintendenza, ma di non aver avuto credito. Di ciò vi fu anche
una lettera inviata a un quotidiano locale. Sta di fatto che, in quanto
presidente pro-tempore della più grande “universitas” di persone lericine,
ho inviata la lettera di segnalazione, fatta firmare anche dal rappresentante
di Italia Nostra.
Il primo elemento di colonna, sollevato dal fondale con l’ausilio di un
pontone-gru della Marina Militare, trattato adeguatamente in varie soluzioni
saline per non farlo decomporre, è stato messo in mostra nell’area archeologica
di Luni, in quanto il Comune di Lerici non è stato capace di preparare
una adeguata piattaforma per potervi costruire sopra, in tutta la sua
imponenza, la colonna romana, composta di tutte le sue tre parti.
Ciò sarebbe stato un degno modo per celebrare le Ericinasque Stationes!
Sarà possibile rimediare in futuro a questa perdita, inopinatamente
sofferta dalla comunità lericina?
Il promontorio del Caprione nella cartografia di Tolomeo
Tolomeo è uno dei più grandi astronomi e cartografi dell’antichità (85-165 d.C.).
Nato in Egitto, visse e operò in Alessandria nell’epoca degli
Antonini. Egli era ancorato alle credenze antiche, quindi credeva che il
Sole e la Luna ruotassero attorno alla Terra, così come le stelle fisse,
poste su una sfera molto lontana dalla Terra. Egli credeva nella rotondità
della Terra, immobile al centro dell’universo. Credeva che le orbite degli
astri fossero perfettamente circolari e che questi si muovessero di moto
uniforme. Per cercare di correggere le osservazioni di anomalie emergenti
in questo sistema astronomico complesso, egli ideò la teoria degli epicicli
e dell’eccentrico.
Il grande merito di Tolomeo fu però quello di avere scritto la Mathematike
Sintaxis, chiamata dagli astronomi alessandrini Megale Sintaxis, nota
nel Medioevo come “Almagesto” o “L’Almagesto”, dalla denominazione
araba “Al Madjisti” datagli quando venne fatta la traduzione in arabo
all’epoca da Harun-ar-Rashid. Questa è l’opera più completa sulla
conoscenza delle stelle e delle costellazioni nel sistema geocentrico.
Suo grande merito fu anche quello di avere prodotto la cartografia del
mondo allora conosciuto, per rispondere a un’esigenza dell’impero
romano. Secondo alcuni studiosi le tavole che accompagnavano il
testo di Tolomeo sarebbero state fatte nel IV-V secolo d.C. da parte
di Agatodemone Alessandrino.
Ma ancora di più fu merito di Tolomeo avere calcolato la latitudine e la
longitudine di 8.000 luoghi importanti dell’antichità.
Nel novero di questi figurano, oltre a Porto Venere, i seguenti:
Golfo di Lerici 31° 15’ Longitudine 42° 55’ Latitudine
Foce del fiume Magra 30° 45’ Longitudine 42° 45’ Latitudine
Deviazione del fiume Vara 31° 30’ Longitudine 43° 00’ Latitudine
Mentre le latitudini possono essere considerate accettabili, le longitudini
risentono della difficoltà di impostazione concettuale derivanti dalla
accettazione, da parte di Tolomeo, del valore di 180.000 stadi, proposto
da Posidonio, per la lunghezza della massima circonferenza terrestre,
valore enormemente errato rispetto a quello proposto da Eratostene,
di 40.000 chilometri, basato sullo studio dell’ombra al Solstizio
d’Estate ad Assuan e Alessandria (differenza angolare di 7° 12’),
valore che non venne creduto.
Va notato che nella Tabula Sexta, compresa nel Codice Lat. V F. 32
custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, figurano i seguenti
toponimi:
– pmõt (promontorio)
– luna
– folle papiriane.
– macra f.
– ericis portus
– veneris portus.
Mentre l’indicazione del promontorio e l’indicazione della foce del
Magra era importante per la navigazione, l’indicazione del toponimo
“folle papiriane” (oggi Follo) e della confluenza Vara-Magra era
importante per le comunicazioni terrestri verso la Francia, lungo il
corso del Vara, e verso la Germania, lungo il corso del Taro.
Una strada romana nel Caprione?
Nella tradizione orale di Tellaro esiste la denominazione di “strada
romana” per un tratto di mulattiera che esiste fra Zanego e Monte
Marcello. Questo toponimo non è di per sé prova che i Romani
abbiano costruito strade nel Caprione, quasi certamente già servito
da sentieri costruiti dai Liguri (il tentativo di penetrazione costato
4.000 morti al Console Quinto Marcio avvenne senz’altro su questa
viabilità primitiva). Ciò che stupisce della mulattiera di Monte
Marcello è la sua perfetta linearità, per lo meno nel tratto in salita
che dalla Valletta arriva allo strapiombo della Gruzza e che in piano
continua verso Zanego. Questo modo di costruire è tipico dei Romani,
così come la lastricatura corrisponde alla tipiche strade romane di
montagna. Altro toponimo dialettale di “strada romana” si ha nel tratto
di mulattiera che da Pozzuolo scende in Bagnara.
Due indicazioni documentali di strade romane si hanno a Lerici
nella delibera comunale del 1825 che elenca le strade del territorio.
Si tratta di mulattiere, salvo l’unico tratto di strada carraia che
da Lerici, con un ponte del XVII sec. costruito al Guercio nel
punto in cui il canale di Remaggio incrocia il canale di Bonezzola,
portava alla scafa della Magra a San Genisio, sotto Trebbiano.
Circa la strada che da Lerici conduceva a Bella Vista, si legge la
indicazione “Strada antica Romana”, mentre circa una strada che
correva in linea di livello fra Lerici e Botri si legge l’indicazione
“strada spianata Romana”.
Nonostante le autorità archeologiche non prendano in
considerazione l’ipotesi che la strada di Monte Marcello possa
essere romana, una ipotesi di strada che dal “guado del cane”
(il guado in malta, che si ritiene costruito dai Romani) salisse fino a
San Lorenzo e da qui scendesse con un ramo fino a Lerici e, continuando
raggiungesse Solaro (si veda l’Ortomagno, considerato di origine
romana), Pozzuolo, Pitelli e quindi Arcola e poi il Termo-Melara,
sarebbe invero credibile. Questa strada avrebbe dovuto essere collegata
con il tratto di crinale che da Monte Marcello portava a Senzano, per poi
collegarsi con il tratto proveniente da San Lorenzo.
Per ora, finché non verranno trovati reperti al di sotto delle strutture
citate, non si potrà parlare di strade romane nel Caprione (anche se è
certo che i Romani vi insediarono i loro “equites”).
PARTE QUARTA
IL MEDIOEVO
Il Medioevo nel Caprione e nel Corvo
L’interesse dello studio delle emergenze che il Medioevo ha lasciato
nel Caprione sembrerebbe facile, prendendo atto anche solo
della presenza dei castelli di Lerici e Ameglia. Ma non è così.
Il Codice Pelavicino, il più insigne documento di Lunigiana, ci fornisce
la documentazione dei contratti medioevali in uso nelle varie “mansio”
del promontorio, sia prima dell’avvento dell’uso dei canoni in moneta,
sia dopo la loro introduzione. L’interesse per questa
comparazione è così importante che una studiosa dell’Università
di Mosca venne a Sarzana, in un periodo in cui il Marxismo era in auge,
per poter esaminare il Codice e confrontare i corrispettivi in natura con
i corrispettivi in denaro.
Altra documentazione relativa a questi tipici contratti medioevali si
ritrova nei volumi di Francesco Poggi a titolo Lerici e il suo castello,
ed è stata sintetizzata nel quaderno del territorio a titolo Elementi di
micro-storia economica nel territorio di Lerici (Calzolari E., 1985),
per renderla più facilmente accessibile a chi vuol conoscere la storia
locale. Per rimarcare l’interesse su questa materia è stato anche
pubblicato un quaderno del territorio a titolo I Contratti di Portesone
(Cabano G., 1988), in cui vengono specificamente
presentati i documenti del Codice Pelavicino relativi al villaggio pastorale
di Portesone, quindici case costruite su uno strato di roccia affiorante,
che, pur nella loro pochezza, avevano avuto un signore della portata
di Branca Doria, personaggio citato da Dante nella Commedia.
Portesone, villaggio agricolo-pastorale
Portesone è tipico toponimo medioevale, meglio da intendersi come
“partesone”, cioè “grande tenuta, grande mansio”, in rapporto alla più
piccola tenuta di “Partesella”, “piccola mansio”, citata nel diploma
di Federico Barbarossa del 1185 in cui vengono sanciti i diritti del
vesovo-conte di Lunigiana. Portesone è anche tipico nella struttura,
con costruzioni a due piani, di cui quella inferiore usata come stalla,
e quella superiore come abitazione. Si ritiene utile riportare la
descrizione di questo villaggio così come pubblicata nel quaderno del
territorio curato da Gino Cabano: «Su alcune abitazioni si possono ancora
intravvedere accessi esterni elevati ai primi piani. Questi portali, attualmente
murati e privi di scale, lascerebbero supporre l’accesso mediante scale
mobili in legno. Tutto ciò per una maggior difendibilità del borgo, cui va
riferita anche la totale mancanza di finestre, sostituite da piccole feritoie
sia sui lati esterni che su quelli interni del villaggio. Un particolare, che
non può sfuggire a chi attraversa il borgo, è la totale assenza dei
camini, che sicuramente denota la semplicità e la antichità del
villaggio, e, nel medesimo tempo, fa supporre l’utilizzo del sottotetto
quale essiccatoio. In tutte le costruzioni è presente l’aia o “chiostro”
tipico delle strutture rurali.»
Ancora viene spiegato come soltanto le mura perimetrali fossero in sasso,
fissato con malta e scaglie, mentre tutto il resto era in legno. Il tetto veniva
costruito con un grande tronco, appena sbozzato, su cui si posavano
travicelli minori, sopra i quali si posavano le tavole che sorreggevano la
copertura in ardesia. Interessante è anche l’osservazione delle tipologie
dei vari portali, sia con architrave monolite in pietra, sia con architrave
in legno, sia con arco in pietra ribassato, sia con arco sostenuto da
architrave. Gli atti che riguardano Portesone si trovano sia nel Codice
Pelavicino, in numero di sei, sia nelle carte dell’Abbazia del Tino, in
numero di cinque, sia nel Registrum Vetus del Comune di Sarzana,
uno soltanto.
Per significare quanto la documentazione relativa a Portesone ci introduca
nel Medioevo basta leggere l’atto N. 496 del Codice, del 13 gennaio 1285,
relativo a un contratto di compravendita di un terreno sito in Portesone,
in cui vengono cedute anche le famiglie che vi vivevano e lavoravano la
terra, con atto di sottomissione al nuovo signore.
Fra i contratti si citano il censo, l’enfiteosi, il livello (libellaticum), la
soccida. L’obbligo contrattuale si può estendere anche agli eredi, come si
legge in un contratto stipulato in Ameglia fra il castaldo del Vescovo Pietro
ed Erbello del fu Trebianello della Cala, che impegna sé e i suoi eredi
ad abitare, bonificare e lavorare una giova di bosco in Portesone, dal
giorno del contratto, 11 novembre 1189, in perpetuo, pagando alla Curia
annualmente un denaro e la quarta parte dei prodotti. Si noti come il
contratto venga stipulato il giorno di San Martino, quando si tiravano le
somme delle annate, si rinnovavano i contratti agrari e si assaggiava il
vino nuovo.
In un atto del 1235 del Codice Pelavicino il Vescovo Guglielmo affitta
una terra in Piccetta (pertinenza di Portesone che trae il nome dal piceus,
“pino”) coltivata in parte a vigne, in parte piantumata con olivi e fichi.
Si noti come al Vescovo spettino annualmente quattro congi e mezza
libra di olio buono, più il diritto di omaggio, più i diritti di consuetudine
(communium et factionum).
Nell’atto N. 496 del 3 gennaio 1285, la signora Garfagnina, a causa di
debiti, vende, trasferisce e cede al vescovo Enrico un terreno con Nicolò
del fu Bonaventura di Portesone, i fratelli Corrado e Conforto e i figli
del fu Simone, fratello del detto Nicolò, Bonafemina del fu Raffino,
Meglioruccio del fu Boninsegna, vassalli e fedeli. Il vescovo acquista
nella sua totalità tutti e ciascuno dei fedeli e dei vassalli, i villani e gli
ascritizzi, i sottoposti di ciascun genere e tutti i fitti, i redditi e i
tributi, le prestazioni d’opera, con ogni diritto delle persone, tenute,
proprietà, case per VII lire imperiali.
Nel 1125 il Vescovo Andrea conferma all’Abate del Monastero del
Tino tutti i possedimenti che il Monastero ha in Portesone e concede
tre jugeri di terra in cambio di tre denari di Lucca, concedendo anche
il diritto d’uso dell’acqua, i pascoli e i boschi agli uomini che abitano
in Portesone.
Interessante è anche una formula di maledizione nel caso venisse
violato il patto per la cessione di una decima all’Abate Giovanni
del Monastero del Tino, da parte dei fratelli Azzo, Guazo e
Guillizone, marchesi obertenghi, sui terreni che essi hanno in
Portesone. L’Abate promette di commemorare l’anima del loro
padre nell’anniversario della morte, ma l’atto termina con la
maledizione in nome del “Padre, Figlio e Spirito Santo” nel caso
in cui venisse violato il patto.
La lettura dei contratti ci introduce in pieno nella vita medievale,
anche attraverso i vari modi di lavorare la terra:
– debelis, il “debbio”, consistente nel bruciare la vegetazione,
ottenendo la pulizia del terreno, lo sgretolamento dei
sassi, la concimazione con i sali delle ceneri;
– runcare, cioè “utilizzare la roncola” per tagliare la vegetazione,
svellere le radici infestanti, raccogliere i sassi ai
margini del campo, quindi bruciare legna, rami, foglie
per concimare il terreno;
– fornellare, cioè “pulire il terreno” come nel runcare, bruciando
però i vegetali in un apposito spazio rotondo, ricavato
con sassi e zolle erbose, posto ai bordi del campo.
Una visita al villaggio pastorale di Portesone è capace di mettere
stupore sulla semplicità della vita agraria del Medioevo, in questi terreni
collinari caratterizzati dall’ecosistema pecora-olivo.
L’olio di oliva cantato dal Petrarca
Va in proposito ricordato che il Petrarca, che ben conosceva il
Caprione perché si imbarcava e sbarcava nel porto di Lerici quando
doveva viaggiare da o per Avignone (utilizzando il porto di Aigues Mortes,
si recava anche a Trebbiano per salutare la famiglia Sceptem, il cui
figlio era un suo carissimo amico e compagno di diaconato (questi
divenne poi cardinale di Genova, noto come Cardinal Sette, e a
Sampierdarena esiste una via a lui dedicata). Di questi viaggi del
Petrarca parla anche l’Abate Emanuelle Gerini, nelle Memorie, ove
si legge di “Guido Scetteme, Arcivescovo Illustre”:
«E siccome allora, cioè nel settembre 1343, eravi guerra in questa
provincia tra’ Pisani e Luchino Visconti, il Poeta fino a Lerici
pervenne, e trovate le strade chiuse dagli eserciti delle parti guerreggianti,
posesi in barca a costeggiare la spiaggia Lunense fino a Motrone, dove
misesi a terra e passò la notte negli accampamenti Pisani, indi seguì suo
cammino verso Napoli.»
La rotta per Aigues Mortes era assai frequentata e si ha notizia che
nel 1340 (epoca in cui Petrarca viaggiava) Massaro Simonello di San
Terenzo effettuava noli da Genova ad Acque Morte (vigeva allora
l’obbligo per le navi lericine di recarsi a Genova e iniziare da quel porto
il decorso del nolo).
Egli poté così cantare la «snella torre del Castello di Lerice», prima
che fosse reincamiciata per resistere ai tiri delle nuove armi da
fuoco (i passavolanti), e anche cantò l’estrema punta del promontorio,
che egli poté vedere dal mare navigando, sia nel poema Aphrica,
sia nel poema Itinerario Siriaco:
«… quindi il Capo di Corvo, a cui intorno l’onda irata del mar
gonfiasi e freme e ai sassi rotta irta spumeggia…» (Aphrica);
«… non distante da qui, presso gli estremi confini genovesi, vedrai
il famoso scoglio del Corvo, che prese il nome dal colore, e poco
lungi le foci della Macra, che divide i Liguri Marittimi dai
Toscani… » (Itinerario Siriaco).
Ma soprattutto egli cantò la bontà dell’olio della riviera, sia nel
poema Aphrica, sia nelle Familiarum Rerum:
«Allungando il cammino a’ naviganti surge in porto di Venere,
già cara isoletta alla diva, a lei di fronte si alza il fortissimo Erice,
che i nomi delle sicule spiagge anco ritiene. Su questi colli, che di
ricchi olivi inghirlandata al sole ergon la fronte, talor Minerva
passeggiar fu vista, dimentica d’Atene, di sua fronda dal dolce
frutto ammaliata e vinta, quindi il Capo di Corvo…» (Aphrica);
«Ei vien recandoti un picciol vaso del più molle di tutti i liquori,
vo’ dire olio, che spontaneo e vergine, come dicono, stillò, senza
che mano il premesse, dalle olive de’ nostri colli, ove direi che
lasciata Atene, fosse venuta ad abitare la trovatrice dell’olio
Minerva, se, già è tempo, ne’ miei libri dell’Africa a Porto Venere
e a Lerici sulla riviera di Genova, non l’avessi collocata» (Familiarum
Rerum Libri, Liber Tertius, 22, 6-1).
Sulla bontà dell’olio della costa non vi sono dubbi, così come sulla
serena pace che l’oliveto infonde. Un testimone d’eccezione sulla
bellezza dell’oliveto di Tellaro è lo scrittore inglese David Herbert
Lawrence, che così scrive in una lettera a D. W. Hopkin:
«Dear Will,
… You have no idea how beautiful olives are, so grey, so delicately
sad, reminding one constantly of the New Testament. I am always
expecting when I go to Tellaro for the letters, to meet Jesus
gossiping with his disciples as he goes along above the sea, under
the grey, light olives…» (da Fiascherino, 18 dicembre 1913).
Circa la fama dell’olio, il Canonico lericino Gio-Batta Gonetta, acuto
osservatore e narratore, nel Saggio istorico descrittivo… scrive:
«Un adagio antico dicea “olio di Barbazzano, formaggio di Compiano
e vino delle Cinque Terre”. Il timo di cui si pasce l’armento dà pure
caci squisiti a Serra, Telaro, e più ancora a Montemarcello; e olii
preziosi dà il comune di Lerici, sebbene non giungano alla bontà di
quelli di Barbazzano, or di Telaro, pari forse a qualunque altro in
preziosità, qualora a dovere venissero fatti… Il Petrarca, al vedere gli oliveti del Comune e Mandamento di Lerici, nel suo poema Africa, non dubitò asserire che Minerva…» (1867).
Oltre alla fama locale, l’olio di questi territori era noto nel Medioevo
e commerciato anche nel resto del Mediterraneo. Se ne ha
documentazione in un atto del 1222, riportato dal Poggi, per cui
viene rubato un carico di olio pisano destinato ai Saraceni (Pisa aveva
il dominio sulla costa fino a Lerici). In cambio i Pisani ricevevano “zucaro”
di Babilonia (lo zucchero, già noto in India all’epoca dell’imperatore
Dario nel 510 a.C., viene citato anche dal generale di Alessandro Nearco
nel 327 a.C. e viene prodotto in grande scala in Sicilia, nel 900 d.C.).
Arrivo di “zucaro” da Babilonia è citato nel 1294, mentre “zucaro”
proveniente da Cipro è citato nel 1301.
La Verrucola di Barbazzano
Mentre Portesone è un villaggio pastorale aperto, Barbazzano è un
borgo fortificato, una Verrucola, così come si legge in una pergamena
del Codice Pelavicino del 22 giugno 1274, indizione 2, ove viene
esplicitato l’obbligo gravante sugli “Homines de Verucula” di portare
il vescovo a Roma, Genova e Pisa, con le proprie navi, «in propria
galea, sive saiectea vel aliis lignis.» Non solo essi «debent ferre
dominum episcopum», ma anche devono trasportate tutti coloro che
devono seguire il vescovo in missione, per esercitare le proprie mansioni.
Barbazano era un borgo medioevale dotato di proprio sorgitore (un
porto dotato di sorgente d’acqua dolce per il rifornimento delle
navi).
La sorgente è ancora parzialmente visibile nella spiaggia di
Fiascherino, per tradizione riservata agli uomini della Serra (se ne
scorgono i filetti fluidi nell’acqua di mare, perché l’acqua dolce è
freddissima), mentre il porto non è ben comprensibile nella sua
dimensione iniziale, perché il promontorio, che lo difendeva dalla
traversia di libeccio, è franato in mare, si ritiene nel XVI sec., e
oggi ne rimangono affioranti gli scogli detti “gli Stellini”.
Barbazzano era quindi un borgo agricolo, ne fanno fede le numerose
pergamene del Codice Pelavicino, ma anche un borgo di marinai, se
il vescovo-conte di Lunigiana li utilizzava come proprio “vettore
ufficiale”. Si deve ritenere che i marinai di Barbazzano esercitassero
anche la pirateria, perché esiste un documento, citato dal Poggi, in
cui uomini di Barbazzano assaltarono presso il Corvo una saettia del
fiorentino Lapo di Buoncompagno, derubandolo di merci e denari
(1264). Questo atto di pirateria era rivolto ai Fiorentini, in quanto
nemici dei Pisani, essendo gli uomini di Barbazzano sudditi di Pisa.
Alla battaglia della Meloria marinai lericini combattevano sulle
navi genovesi, mentre i marinai di Barbazzano combattevano su
navi pisane (1284). Decaduta la potenza pisana, gli uomini di
Barbazano effettueranno sottomissione completa a Genova nel
1286.
Le rovine esistenti ci possono far capire la struttura di questo
borgo fortificato; è ancora visibile e ben conservata la torre occidentale,
con la porta per immettersi nella mulattiera diretta a Lerici.
Appaiono ancora visibili i cardini in pietra. La torre portava nella
parte superiore lo sbalzo per la collocazione del tavolato, atto a
fornire l’impiantito per il posto di guardia, che aveva il compito
di controllare le mura, ma anche il mare antistante. Salendo sulla
torre il mare è infatti perfettamente visibile. Oltre alla torre
sono visibili i resti della chiesa, utilizzata fino alla Seconda Guerra
Mondiale come stalla per le pecore. Mentre le rovine dell’intero
borgo sono di proprietà di privati, l’area della chiesa appartiene
all’Istituto per il Sostentamento del Clero. Della chiesa sono ancora
visibili la finestra a croce della facciata e le due finestre arciere, con
ngolo di tiro verso la via proveniente da levante. È assai difficile poter capire
se fu costruita
inizialmente come chiesa fortificata, oppure se sia un riutilizzo di una
struttura militare di epoche precedenti. All’interno del borgo si notano
ancora i resti di un edificio in muratura, che dovrebbe essere la residenza
del vescovo di Lunigiana, quando questi vi si trasferiva con la curia
per la festa della Madonna di Mezzo Agosto. Va notata la grande
importanza di questo periodo dell’anno per i popoli marittimi, in quanto
con feria di Mezzo Agosto si chiudeva la navigazione per il timore
delle tempeste di cambio di stagione.
Carlo V, che nel 1541 volle tentare la spedizione contro Algeri, dopo
tale data pagò caramente questa sua avventatezza e si salvò soltanto
perché si era imbarcato su una grande nave, il galeone “Real”, costruito
appositamente anche per l’imbarco della corte. Eppure lo stesso papa
Paolo III, che lo aveva ricevuto a Lucca, lo aveva ammonito a non
tentare l’impresa.
Oltre che per assistere alla chiusura della navigazione, il vescovo di
Luni si intratteneva a Barbazano per fare i bagni con l’acqua di mare.
Non che scendesse in spiaggia, bensì si faceva portare acqua di mare
che rendeva ulteriormente curativa con erbe aromatiche. Pare
oltremodo interessante prendere atto delle prestazioni che gli erano
dovute dagli uomini del borgo. Per esempio, ogni sera dovevano
essergli portate le foglie secche per riempire il saccone su cui
riposare. Non si sa se ciò sia dovuto al solo fatto di volere dormire
sul soffice, oppure se egli conoscesse quanto noi oggi conosciamo
dagli esperimenti fatti con la camera di Kirlian, per cui le foglie
continuano a emettere energia vitale per più giorni, fino a che
questa scompare definitivamente. È per questo che i formaggi vengono
adagiati, secondo la tradizione, sulle foglie appena tolte dalla pianta.
L’impasto verrà sterilizzato perfettamente da questa energia. Ciò
viene controllato oggi mediante analisi di laboratorio, ed il risultato
è strabiliante.
Secondo Mons. Wando Cabano, Barbazano appartenne
ai vescovi di Luni dall’anno 880, mentre secondo il diploma di Ottone
II del 981, fu sempre unito ad Ameglia. Nel porto di Barbazano
confluirono i signori di Lunigiana in partenza per la VI Crociata e,
secondo il Maestro Ennio Callegari, fu proprio uno di questi crociati che
al ritorno per adempiere a un voto, fece costruire sul
litorale una cappella dedicata a Santa Maria Assunta.
Gioacchino Volpe, nel libro Toscana medioevale, presenta i
redditi del vescovo di Luni fra Ameglia e Barbazzano, e fra questi
figurano il vino, il frumento, i pascoli, le biade, i pedaggi alla foce
della Magra, i pedaggi per passare il fiume, i pesci, le castagne e
i servizi per andare a Roma.
Nel Codice Pelavicino sono indicate in tre diversi atti le tabelle
per le gabelle vescovili, che erano situate a Caprigliola (S. Stefano
di Magra, gabella di terra) ad Avenza (Carrara) e alla Foce della
Magra, nel porto di Santo Maurizio (gabelle di mare).
Interessantissima è la serie merceologica delle merci che transitavano
nelle varie stazioni di gabella. Soprattutto sono interessanti le gabelle
per le navi e per le parti di navi della gabella del porto di Santo Maurizio.
Emerge da documenti pisani anche un’attività degli uomini di
Barbazano nel commercio della “vena di ferro”; così come dagli
Statuti di Pisa, che vanno dal XII al XIV sec., emerge che i
funzionari pisani (camerarii et notari) destinati ai distretti di
Ameglia, Barbazano e Montemarcello, oltre al salario, o feudo,
abbiano settanta lire in denaro pisano, non solo, ma abbiano anche
il letto, compreso di coperte, materassi e cuscini.
Le macine a remo del Caprione
Altro elemento importante nella struttura del borgo è il frantoio,
cioè il locale ove è conservata la base in pietra della macina, con
scanalatura a settore circolare. Si tratta di un tipo di macina
assai singolare, che per ora è stata rinvenuta soltanto nel golfo della
Spezia. Le prime ricerche su queste macine sono da ascrivere allo
studioso Gino Cabano. I resti di tre di queste macine si trovano nel
Caprione, mentre un’altra è nell’isola del Tino. Questo tipo di struttura
è stato presentato al Convegno Internazionale “The Road of Food
habits in the Mediterranean Area”, tenutosi a Napoli alla Mostra
d’Oltremare nel maggio 1997. Nessuno dei presenti aveva visto un simile
costrutto, soltanto una docente di Cipro aveva mostrato l’immagine di
due donne che macinavano il cereale nella stessa posizione e con gli
stessi movimenti delle “macine a remo” del Caprione, senza però
mostrare la struttura sottostante. Questo tipo di macina è stato definito
“macina a remo” per il movimento alternato con cui funziona. Lo studio
di questo tipo di macina è stato pubblicato nella “Rivista di Antropologia”,
Supplemento al volume 76 del 1998, col titolo “Oriental inedited
mill-stones in the promontory of Caprione (Gulf of la Spezia)”.
Va notato che a Barbazzano è stato possibile ritrovare la forcella di
fulcro, separata in due parti perfettamente combacianti, nonché una
parte della ruota. Le altre basi di macina sono state rinvenute a
Narbostro (spezzata parzialmente) e a San Lorenzo. Proprio grazie a
quest’ultima macina, spostata dal suo luogo iniziale accanto alla chiesa di San
Lorenzo (le decime si pagavano alla chiesa e solo gli storpi e i malati
potevano macinare senza pagarle), è stato possibile scoprire il
Quadrilite con la farfalla dorata. A San Lorenzo è stata anche scoperta
la ruota di macina, un tempo visibile nella corte di una casa prossima
alla chiesa. La macina sita nell’isola del Tino è visibile durante le visite
permesse dalla Marina Militare in occasione della festa di San Venerio.
Un particolare che si nota soltanto nella base di macina di Barbazano è
costituito da quattro asole scavate nel settore circolare per bloccare
la ruota con due assi traversi (fermi di sicurezza per la prevenzione
degli infortuni).
Il curatore della sezione archeologica del Congresso
di Napoli, nel prendere atto del contenuto del poster, espresse in verità
la convenzione che un simile tipico di macina fosse molto più antico e
chiese perché lo avessi presentato nel settore “medioevo”. Risposi che,
mancando di altri elementi di datazione, avevo utilizzato come elemento
guida il fatto che le macine fossero collocate in due borghi medioevali
del promontorio del Caprione, cioè Barbazano e San Lorenzo, e che la
terza macina fosse collocata nell’isola del Tino, ove vi era il Monastero
i cui atti, portati all’Archivio di Stato di Torino dagli occupanti piemontesi,
datavano a partire dal 1000. Può essere però considerato probabile
che la tecnologia adottata venga dalla Protostoria, dalla civiltà che si sviluppò
attorno ai laghi della Svizzera (Neuchatel)(vedi “Dizionario di Preistoria” di
André Leroi-Gourhan).
Da Barbazano a Tellaro
È indubbio che il titolo della chiesa di San Giorgio sia passato da
Barbazano a Tellaro, ma va sfatata la credenza che Tellaro non
esistesse ancora mentre Barbazano stava scomparendo. Per seguire la
vita di una comunità medioevale è molto importante seguire le vicende
della sua chiesa. Barbazano faceva parte del piviere di Ameglia. Il Pievano
aveva sotto di sé tutte le chiese e cappelle e inviava i suoi preti a officiare
la Santa Messa la domenica e le feste, ma battesimi, matrimoni, funerali
e le stesse sepolture avvenivano nella chiesa matrice.
Barbazano, già nel 981, faceva parte dei domini del vescovo-conte di Lunigiana,
e nel 1116 l’imperatore Federico II concesse a Pisa la giurisdizione sulla costa
orientale del golfo, per cui Barbazano rimase sotto Pisa fino alla sconfitta
della Meloria, avvenuta il 6 agosto 1284. Con l’atto di sottomissione del 15
settembre 1286, il Sindaco di Barbazano di impegnò a pagare a Genova
grosse somme per risarcimento del danno arrecato, nonché fornire in pegno
molti beni, impegnarsi a non fare più offese ingiurie e danni al
Comune di Genova, a non accogliere fuoriusciti genovesi e a consegnare
debitori, omicidi e traditori. Barbazano rimase sotto la giurisdizione genovese
fino al 1300, quando le guerre intestine in quella città ne fanno disperdere il
potere. Barbazano, con Ameglia, cadde quindi in potere del Comune di Lucca,
desiderosa di avere un accesso al mare. Tale rimarrà fino al 1312, quando il
Vicario dell’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo, chiamato a portare la
pace fra le due fazioni genovesi, continuerà la sua opera di pacificazione
anche nella riviera.
Così Barbazano e Ameglia, nel 1313, passarono sotto il dominio di Bernabò
Doria. Alla morte improvvisa dell’imperatore Enrico VII, avvenuta a
Buonconvento (Siena) tutto si riaccese, ma Barbazano, Ameglia e Portesone
restarono sotto la signoria dei Doria. Nel 1320 apparve la figura potente di
Castruccio Castracani, signore di Lucca, il quale, avendo avuto delega
dal vescovo Gherardino sul feudo comitale, divenne signore di Ameglia
e Barbazano. E fu sotto questo dominio che si registrò un fatto di notevole
importanza nella Podesteria di Ameglia. Gli uomini, o meglio i capi-famiglia,
si riunirono il 17 aprile 1328 nella cosiddetta “Piana di San Giorgio” per
tenere un parlamento all’aperto in cui discutere questioni di confini e di
proprietà in relazione alle onnipresenti pretese dei Sarzanesi. L’atto relativo
è riportato nel “Registrum Vetus” del Comune di Sarzana al N. 55 con la
titolazione “Congregatio generali parlamento comunis Amelie et Barbacani”:
«Nel nome del Signore, amen. Nell’anno della Natività 1328, indizione XI,
giorno 17 aprile. Radunato il parlamento generale del Comune di Ameglia
e di Barbazano su mandato di me notaro Iacopuccio del fu Giovanni Bonaparte
di Sarzana, vicario del signor giudice Tommasino del fu Parente di Sarzana,
podestà di Ameglia e di Barbazano e delle altre terre della podesteria per
l’illustre principe il signor Castruccio, per grazia di Dio capo di Lucca, per
voce del banditore, come è usanza, nel distretto di Ameglia e di Barbazano
nel luogo detto Zanego.»
Erano presenti 45 capi famiglia di Barbazano, 36 capi famiglia di Portesone,
35 di Ameglia, 29 di Monte Marcello, per un
totale di 148 persone. I convenuti elessero sindaci, attori, procuratori e
nunzi speciali Orso del fu Ottonello di Montemarcello e Berto del fu
Giacomino di Barbazzano, incaricati e delegati a discutere qualsiasi vertenza
e divergenza intorno ai confini della Podesteria e dei comuni limitrofi.
Nel 1328 morì Castruccio Castracani e il territorio ritornò sotto la
Signoria dei Doria. Nel 1346 Genova pretendeva di riavere dai Doria Ameglia,
Barbazano, Portesone, uomini, cose e diritti tutti. Così, quando scoppiò la
guerra di Chioggia contro Venezia (1378-1381), Barbazano dovette fornire 17
uomini per le galee, oltre a pagare un contributo.
Terminata la guerra di Chioggia, Genova piombò di nuovo nel caos interno.
I castelli si ribellarono e scelsero i signori cui affidarsi. Barbazzano passò così
sotto i Visconti di Milano.
Da tutto ciò si deduce che esisteva ancora la vivacità della vita in Barbazano.
Intanto a Genova ripresero le lotte interne, e così venne chiamato come
pacificatore Carlo VI re di Francia. Così Ameglia e Barbazano passarono sotto
il dominio francese. Nel 1409, però, Genova si ribellò ai Francesi, e così
Ameglia e Barbazano rientrarono sotto il dominio genovese.
Genova, nel 1421, venne sotto il dominio dei Visconti, e così la Podesteria
di Ameglia fu consegnata a Tommaso di Campofregoso, che la tenne in
possesso fino al 1430 con l’aiuto dei Fiorentini.
Una delle fazioni genovesi, non paga, chiamò in aiuto i Catalani, cioè gli
Aragonesi, che entrarono in guerra con Genova. Gli Aragonesi si impossessarono dei castelli di Lerici e di Porto Venere, e nel 1435 il re Alfonso di
Aragona giunse a Lerici, in attesa dell’arrivo della flotta che l’infante Don Pietro,
suo fratello, doveva condurgli dalla Sicilia.
I Genovesi attaccarono battaglia sul mare e il 5 agosto 1435 ottennero
una strabiliante vittoria presso l’Isola di Ponza, durante la quale furono fatti
prigionieri sia il re Alfonso d’Aragona, sia il re Giovanni di Navarra.
Memoria di questi fatti storici si trova riportata anche nella Gran
Enciclopedia Catalana alla voce “Lerici”:
«Ciutat de Ligúria (La Spezia), Itàlia (14.756 habitants el 1971). Situada
sobre una cala a l’est del golf de Gènova, tè indústria pesquera i conreus
d’oliveres. El 1426 el duc de Milà, Felip Maria Visconti, cedí aquest port
i el de Porto Venere a Alfonso IV de Catalugna-Aragó el qual, en
compensació, renuncià a les seves aspiracions a l’illa de Còrsega.
Després de la derrota de Ponça, però, el rei català hagué de retornar
aquestes bases marťimes.»
I due re furono consegnati a Filippo Maria Visconti, che li liberò,
contro ogni aspettativa dei Genovesi. In questa complessa trattativa
politico-militare avvenne una operazione commerciale che toccò da vicino
gli interessi lericini. I Genovesi concessero che le armi e le cose del re di
Aragona fossero portate a Milano, forse per la via di Pontremoli,
mediante uno speciale salvacondotto. Tramite lo stesso salvacondotto i
Lericini ottennero di poter commerciare sale, ma in quantità controllata,
come scrive il Poggi alla pagina 241 del volume II di Lerici e il suo
castello, evidentemente per non turbare gli equilibri degli esportatori
liguri, e cioè «ristretto solamente alle due navicole di Lorenzo de Rapallo
e di Cristoforo de Castello ed ai lembi, barche ed altri piccoli legni addetti
allo scaricamento di detto sale ed agli uomini in essi imbarcati, e valevole
per quattro mesi a cominciare dal 15 maggio [1436],» Il commercio del
sale era una delle più importati fonti di reddito.
Nel 1438 i Genovesi si allearono con Renato d’Angiò contro gli Aragonesi,
e la reazione del re di Aragona fu violenta. Con numerose navi essi, chiamati
in gergo locale “i Catalan”, compirono atti di pirateria lungo le due riviere
ed è probabile che, avendo attaccato Lerici il 9 marzo 1446, avessero anche
compiuto un attacco contro Barbazano, distruggendolo. Da qui l’antico
detto “i Moi Catalan i gi’an déstruto Barbazan”. È incomprensibile come
i Catalani siano assimilati ai Barbareschi (moi, per “Mori”), che nei secoli
precedenti affliggevano le coste, pirati seguaci dell’Islam che nulla avevano
in comune con la raffinata civiltà araba. In effetti nella cultura mediterranea
si usarono termini vari per denotare gli armati musulmani aggressori e
predatori. Solitamente si indicano come “Barbareschi” i pirati musulmani
provenienti dalla costa settentrionale dell’Africa (Barberia, da Berberia,
terra dei Berberi), “Saraceni” (siarkjin, sarazzin, forse da sarqi, “oriente,
orientale”) i pirati di origine araba in genere, che si vennero a
insediare nelle coste del Mediterraneo europeo, “Mori” i pirati comunque
di pelle scura, fra cui anche i pirati musulmani provenienti dalla enclave
moresca di Spagna, tenuta dagli Omaydi di Cordoba.
Secoli di scorrerie sulle coste con intenti predatori e anche con intenti
coloniali (si pensi all’occupazione stabile delle foci del Garigliano, alla
occupazione stabile della base di Frassineto, nel golfo di Saint Tropez,
con conseguente occupazione dei Passi Alpini, alla installazione di numerose
basi in Corsica, alla stessa occupazione di Luni nel 1015), avevano marcato
in maniera indelebile la memoria storica delle popolazioni rivierasche.
Per combattere i pirati e liberare la Corsica dalle basi di Mugiaihd (noto
fra i Cristiani come “Musetto”) intervenne nel 1016 anche il papa, che
fece fare una pace (temporanea) fra Genova e Pisa, in modo da poter unire
le loro forze navali contro i Musulmani, che avevano rapito san Maiolo,
abate di Cluny, mentre transitava per il Passo del Gran San Bernardo.
Per liberarlo fu necessario pagare mille libbre di argento. L’intervento papale
avvenne anche più tardi, nel 1132, tramite gli uffici di san Bernardo di
Chiaravalle per far interrompere i reciproci atti di pirateria fra le navi delle
due super-potenze marittime di allora, in quanto papa Innocenzo II aveva
bisogno delle loro forze unite per battere re Ruggero di Sicilia, che proteggeva
l’antipapa Anacleto.
Il pericolo musulmano entrò anche nei patti che regolavano i contratti civili.
Come riferisce il Volpe, «i coloni che coltivavano le terre della chiesa lucchese
o prendono da essa a livello mulini, si riservano di non pagare il fitto quando la
minaccia corsara si abbatta sul paese: anteposito si gens paganorum
casis et rebus ipsis seu predicto molino non incenderint et non
pegnoraverint. Trattasi di contratto con cui il Vescovo Gherardo allivella
ad un tale una casa e corte donnicata e mulino in loco et finibus Casale
Longo presso Cornino» (Toscana Medioevale, p. 8). Si noti come in tale
caso i pirati musulmani siano definiti, all’epoca, genericamente “pagani”.
Vero che nel 1372 vi fu una grande spedizione navale dei Genovesi, seguita
da un’altra internazionale, cui parteciparono anche gli Aragonesi, che
distrussero tutte le principali basi navali dei pirati mediterranei, ma questa
volta furono i “cristiani” Catalani che portarono la distruzione in
Barbazano, facendone iniziare lo spopolamento verso il nuovo insediamento
di Tellaro.
Un ulteriore evento che portò al declino di Barbazano fu
quasi certamente la spedizione punitiva delle soldataglie del Reatino,
Tommaso Moroni da Rieti, al servizio di Francesco Sforza. Questo
principe aveva assunto la Signoria di Genova nel 1464 (ancora una volta
le fazioni genovesi, anziché trovare un accordo, preferirono la dominazione
straniera) e aveva mandato truppe esterne nella Liguria Orientale per eliminare
ogni resistenza. Il Reatino fece distruggere tutti gli oliveti della costa e
ciò portò ulteriore danno all’antica Verruca, che probabilmente si spopolò
per una serie di cause concomitanti:
– la distruzione delle soldataglie attaccanti;
– il venir meno dell’interesse a ricostruire nello stesso luogo, per la
mancanza di approvvigionamento idrico;
– la concomitanza della nascita di un borgo vicino, costruito con
nuove tecniche che permettevano miglior vivibilità delle abitazioni
e, contemporaneamente, migliori accorgimenti difensivi (per meglio
capire ciò occorre notare che le case di Barbazzano dovevano
essere in parte costruite in legno).
Da più fonti si apprende che nel secolo XV vi fu un abbassamento degli
acquiferi, per cui molti paesi furono abbandonati per luoghi meglio dotati
di sorgenti. Nel 1486 si ha infatti notizia di un progetto per cui gli abitanti
di Ameglia, con una o più giornate di “angheria”, fecero un condotto per
«tirar l’acqua a beneficio delle possessioni di San Giorgio.» Questo condotto,
con parti in cotto incastrate a tulipano, è tuttora visibile lungo la mulattiera
che da Tellaro porta a Capo Acqua, e corre in basso lungo la muraglia,
inserito in un corpo continuo che appare come uno scalino.
In alcuni punti risulta spaccato per far passare le linee ENEL, e dalle
concrezioni saline appare l’avvenuto deflusso di acqua ricca di calcio.
Va notato che, mentre Barbazano andava in declino e il culto liturgico,
fondamentale per la vita della comunità medioevale, si spostava in
Tellaro, anche gli uomini di Montemarcello si costituivano in parrocchia
(1474). Volendo fare una retrospettiva storica della chiesa dell’antico
borgo di Barbazano, si ha una Bolla di papa Eugenio III che la nominò nel
1149 come dipendente della Pieve di Ameglia.
La “Cappella de Barbassano” figura come dipendente della “Plebes de
Amelia” nelle Decime “pro subsidio Rengni Cecilie” (1296-1297), assieme
al “Monasterium Sancte Crucis de Corbo” (Pistarino G., Le Pievi della…).
Nella successiva elencazione delle decime bonifaciane, la cappella è scritta
come “Cappella de Barbaçano”, e circa il Monastero del Corvo vi si legge:
«Monasterium Sancte Crucis de Corbo non solvit quia prior dicti monasterii
in dicto episcopatu fuit collector», cioè fu lo stesso Monaco del Corvo, di
nome Pace, a effettuare la raccolta delle decime, assieme a Canoro,
arcidiacono di Sarzana, e quindi il monastero non effettuò alcun versamento,
mentre la Pieve di Ameglia pagò una libbra e due denari pisani piccoli
(1298-1299). Diversamente la Pieve pagò venti soldi pisani, contro una libbra
e undici denari pisani piccoli pagati dal monastero nella successiva raccolta
del 1303 (il sistema monetario corrente era basato su libbra, soldo, denaro).
Circa la data in cui fu chiusa la chiesa di Barbazano, si ha la relazione
della visita di Monsignor Peruzzi del 1584, in cui si confermava che la
chiesa era in rovina e non era più officiata da quindici anni, cioè dal 1569,
per cui venne chiusa e interdetta.
Circa il problema della data in cui sorse Tellaro, occorre notare che la
prima citazione del toponimo si ha in atto del 9 marzo 1276 del Fondo
Abbazia del Tino, esistente presso l’Archivio di Stato di Torino (gli
occupanti piemontesi raccolsero e portarono nella loro capitale tutto
il Cartolario). In esso si legge che venne fatta concessione livellaria, da
parte dell’Abate e del Priore del Monastero di San Venerio del Tino, a
favore di Portesone del fu Pietro Sardo, di una terra denominata “ad
Telarum”. Si noti la trascrizione del toponimo con una sola “l” , mentre
in una lettera dei Protettori di San Giorgio del giorno 8 agosto 1486 si
legge dell’invio a Genova di uno “de lo Tellaro”.
La citazione di un terreno non significa ancora la costruzione di un borgo,
per cui occorre fare ulteriori ricerche. Il Gonetta, nel manoscritto inedito
“Storia di Lunigiana” presso la Biblioteca Mazzini della Spezia,
alla pagina 169 scrive: «… a Telaro stesso a poco a poco nato e cresciuto
a piedi d’un presidio genovese là sorto verso il 1300 si muniva pure di
torre con voltone intorno da cui con opportune feritoie difendersi dagli
assalti nemici.»
Secondo il Gonetta Tellaro ebbe quindi origine come luogo
fortificato contro gli assalti dal mare, e bene le fortificazioni dovettero
funzionare in tal senso, se si leggono le Croniche di Giovanni Sercambi,
storico lucchese, il quale scrive:
«CCVII – Come molti delle galee de re Luizi furono morti & in volta
ritornaro in Serchio.
Avendo il dicto re in focie di Serchio alquante galee per segurtà di sé et
dei Fiorentini, le dicte galee essendo in focie di Serchio all’entrata di ogosto
in MCCCCX e quine stando fine a di X agosto dicto anno, si partirono e
andaro a Telaro in nella Riviera di Genova, credendo quine acquistare. Et
perché quelli Genovesi che quine erano, sentendosi asaglire, vigorosamente
contestarono con quelle galee, e furono morti delle dicte galee homini
XLIII; et così, senza aquisto, le dicte galee tornaro in focie di Serchio
presso Pisa.»
Un’altra ipotesi circa la nascita di Tellaro è formulata da studiosi del luogo.
Essi sostengono che alcuni cavalieri di Lunigiana partirono da Barbazzano
all’epoca della Sesta Crociata e che fecero voto, qualora fossero tornati
sani e salvi, di costruire una cappella sul mare. Circa la partenza della
crociata guidata da re Luigi il Santo, si riporta quanto scritto dal Petronilli:
«A Portovenere sorse un cantiere per il raddobbo durante le contese
coi Pisani, cantiere che presto acquistò grande importanza, tanto che
al tempo della sesta crociata, promossa da Luigi IX, nel 1248, in esso
furono costruiti ed armati, in tempo brevissimo, un numero non piccolo
di legni.»
Questa attività di costruzioni navali non poté avvenire in Genova, perché vi mancava il legname. Oltre ad aver spogliato di
alberi la Sardegna, Genova aveva anche spogliato di alberi tutte le
colline circostanti (da ciò oggi le disastrose alluvioni che periodicamente
danneggiano la città).
Da questa cappella sarebbe poi iniziata l’urbanizzazione del sito.
In vero, sotto la chiesa di Tellaro, si scorge un resto di muro che mostra
un piccolo tratto di volta, sporgente verso il vuoto, che appare troncato.
Ciò potrebbe essere l’esito dell’azione di fenditura del terreno causata
da una delle master-fault che corrono lungo la costa. Potrebbe
essere questa parte di muro ciò che resta della cappella di cui si narra?
Il castello di Ameglia
Il Volpe, in Toscana Medioevale, scrive che «sorgono i primi castelli
dove sono i possessi più copiosi e più si addensano gli uomini della Chiesa
o dove più urge la minaccia saracena o normanna.» Ameglia è uno di
questi luoghi, e il primo documento che parla del suo castello fu il privilegio
di Ottone I del 19 maggio 963, ove venne citato anche il castello di Trebbiano,
che confermava al vescovo Adalberto il possesso di tutte le corti, pievi, beni
e servi d’ambo i sessi, che furono conferiti con atti autentici dei suoi
predecessori. Il castello fu sempre del vescovo-conte, e si ritrova confermato
in un diploma dell’imperatore Enrico VI del 1121: «castrum de Amelia,
cum curte, districtu, portu venationibus…» (Codice Pelavicino, atto N. 22).
Il prof. Silvestri, già sindaco di Ameglia, fa una bella e completa descrizione
della vita castellana, nel libro Ameglia nella storia della Lunigiana:
«Il castello di Ameglia si presenta come residenza di un feudatario (nel
caso un Vescovo-conte) il quale più o meno saltuariamente vi risiede
come in una piccola corte; qui amministra la giustizia, promulga le leggi,
impone tasse e tributi, organizza feste e cacce, banchetti, forse anche piccole
giostre di cavalieri o spettacoli di commedianti, allietati dalle canzoni dei
trovatori e dei giullari. Accettando la definizione degli studiosi del diritto,
il castello va pensato come un centro con delle mura che devono “currere
circa castrum” per cui l’unico ingresso possibile è la porta, ed il più grave
dei reati, violare le mura. Attorno al castello il borgo, piccolo centro artigiano
dove si esercitano i vari mestieri per tutti i bisogni della contea-feudo.
Nelle campagne i villani o servi della gleba, legati cioè alla terra su cui
nascono e muoiono… In caso di pericolo tutti gli abitanti del feudo trovano
nel castello protezione e rifugio (la “tuitio”); qui si trovano anche le case
d’abitazione addossate alle mura (casae cum solario).
A questa protezione corrisponde un certo numero di servizi personali
gratuiti “onera, angarie, corvatae” (le corvée) per la costruzione di opere
difensive, per manutenzione o riattamento del castello e delle strade. Altri
servizi sono corrisposti a compeno di fitti, come la guardia sulle mura, il
servizio in cucina, assieme a molti altri… Il signore esercitava il diritto di
maritaggio (consenso alle nozze), quello di molitura, il diritto di erbatico
sui pascoli, di pedaggio sul fiume, di ripatica per gli approdi» (pp.120-121).
Un particolare diritto del vescovo-conte era quello di avere il pesce
più grosso di ogni pescata, e in particolare di avere lo storione. Nel
Codice Pelavicino, nell’atto del 22 aprile 1201, indizione 4, si legge:
«Storioni, ombrine, cervie o altro pesce grosso, tutte le volte che sarà
pescato, si deve dare e portare alla curia vescovile. Di ogni pescato, uno
sia dato alla curia, cioè il più grosso, come è di consuetudine; dei più
piccoli, si deve dare e destinare alla curia quello che il pescatore avrà di
meglio, come è consuetudine…»
Le acque del fiume Magra sono adatte alla presenza dello storione, che vi
è stato pescato fino alla seconda metà dell’Ottocento. È molto interessante
notare come anche l’Abate della notissima abbazia di St. Michel avesse la
fruizione dello stesso diritto: «… si homines Abbatis piscem qui dicitur
Sturjon capiunt, totus erit S. Michaelis. Crassuspiscis, si captus fuerit,
ala una et medietas caude erit Monachis.»
Questa annotazione si legge nel
dizionario del latino medioevale del Du Fresne. E bene facevano il
vescovo-conte e l’abate a introdurre nella loro tavola un pesce così ricco
di grassi polinsaturi omega-3, adatti quindi a combattere la ipercolesterolemia!
Il castello di Ameglia è posto sul culmine del colle ed è munito di torre che
fu costruita dal vescovo-conte Antonio da Camilla. A differenza degli altri
castelli, la torre è cilindrica. Il complesso del castello ha una struttura irregolare,
dovuta all’adattamento della costruzione alla irregolarità del terreno.
All’interno del castello, come scriveva nel 1856 il Canonico lericino Gonetta,
che fu parroco di Ameglia, vi era «una piccola chiesa che era detta Cappella
Episcopale perché un tempo pertinenza dei vescovi lunensi…» All’interno
del castello vi è un bel cortile di circa metri 50 x 30.
Sono molti gli atti dei vescovi sottoscritti in “castro Amelie” o in “curia
episcopi Amelia”. Fra questi uno importantissimo per la nascita del
Monastero del Corvo.
Il monastero del Corvo
Nel Codice Pelavicino, negli atti N. 541 e 542, si parla del “monaco de Corvo”:
– atto N. 541 del 12 novembre 1186, ind. 5
«… multa religiosarum personarum paupertatem laborat, quemdam
locum solitarium qui dicitur Corvus, cum ecclesia eiusdem loci sancte
Crucis, religioni, sicut creditur, aptum a bone memorie Pipino
predecessore nostro institutum…»;
– atto N. 542 del 1176, indizione 9
«… Tibi Monacho de Corvo ego Pipinus Dei g.lun. ep. offertor et donator
tuus propterea dixi… tibi supr. Monacho cedo, trado, dono, offero, idest
XXXII iuvas terre continuas ad Macenam in loco qui dicitur Casale, ad
hedificandum tibi monasterium in honorem Dei et vivifice sancte Crucis
et beatissimi Nichodemi confessoris… Actum Amelie in Purificationis S.
Marie in curia feliciter.»
Il vescovo Pipino donò il terreno per costruire il monastero e la relativa
chiesa, dedicata a Santa Croce e a San Nicodemo, ora
parzialmente distrutta (perché costruita proprio sulla faglia). Vi fu collocato
il crocifisso denominato Volto Santo, come quello, certamente più famoso,
collocato nel 742 in San Frediano e poi in San Martino di Lucca.
Papa Niccolò V, sarzanese, preso atto della rovina della chiesa, pur accuratamente
costruita con utilizzo di mattoni, fece costruire attorno all’abside una
cappella ottogonale, in cui ancora si può vedere la bellissima reliquia,
venuta dall’Oriente. In molti antichi documenti si accenna allo stesso
promontorio del Corvo mediante l’indicazione di St. Cruce, Sancte Crucis,
ecc., e in effetti il monastero è proprio sulla punta del promontorio.
(1525) si leggono i seguenti porti:
Nel Portulano delle regioni costiere del Mediterraneo, di Jacobo Turris
– la-vensa (il porto di Avenza, di cui alla gabella vescovile);
– macra (cioè il porto fluviale di Ameglia o di San Maurizio,
cioè in sinistra idraulica della Magra );
– crocie (chiaro richiamo alla presenza di Santa Croce del
Corvo, ma evidentemente riferito al porto della
Ferrara, cioè in destra idraulica della Macra);
– la speci (da intendersi la Spezia);
– p. verine (da intendersi come Porto Venere).
Nel Portulano di Gioan Hieronimo Sosviche delle coste d’Europa (prima
metà del secolo XVII) si leggono i seguenti porti:
– masa (Massa, cioè Avenza);
– la megia (Ameglia);
– magra (sembra quindi vi sia la suddivisione fra i porti delle due
sponde del fiume);
– corvo (sarebbe troppo dover annoverare tre porti alla foce della
Magra, per cui si deve intendere Barbazano);
– erexe (cioè Lerici);
– specie (cioè la Spezia);
– p. venere (cioè Porto Venere).
Immagini tratte da questi due portolani, giacenti presso l’Archivio di
Stato di Pisa, Fondo Uppezinghi, sono state pubblicate nel quaderno
del territorio a titolo Sul toponimo Lerici.
Secondo alcuni studiosi il monastero era tenuto dai Benedettini, e il
Monaco del Corvo volle edificare in quel luogo una chiesa dedicata a
Santa Croce, proprio per ricordare l’arrivo delle reliquie dall’Oriente, e
non solo i crocifissi, fra cui quello di Nicodemo, bensì la reliquia del
Preziosissimo Sangue, venerata dapprima a Luni e poi trasferita a Sarzana,
non senza tumulti di popolo, scatenati dagli uomini di Carrara e di
Castelnuovo Magra contro il vescovo Marzucco. Dell’antica chiesa si
legge ancora una lapide con la scritta “Resurgam”, citata anche dal
Vinzoni che ne ha riprodotta la pianta, indicando nella didascalia che l’Abbazia apparteneva ai Monaci Neri di Sant’Agostino.
Attualmente il complesso è inserito nella tenuta del castello Fabricotti,
acquisito dai Frati Carmelitani. L’importanza del Monastero del Corvo
non è soltanto legata alla storia religiosa medioevale attraverso la
tradizione delle reliquie provenienti dal mare, ma anche alla storia
della lingua italiana. Esiste infatti una epistola inviata al signore di Pisa,
Uguccione della Faggiola, con cui un certo frate Ilario narrava di come fosse
approdato al Monastero un personaggio, Dante Alighieri, il quale aveva
voluto tradurre in linguaggio volgare concetti molti elevati e avesse chiesto
di inviare il suo libretto (La Commedia) al suddetto signore. Gli studiosi
si sono divisi sulla autenticità di questa Epistola di Frate Ilario. Sembra
tuttavia verisimile che Dante sia stato al Corvo, perché citò un particolare
che è a pochi noto. Egli citò il luogo di Turbia nel verso famoso «Tra
Lerici e Turbia…» ed è risaputo che il poeta non fu mai alla Turbie
(Provenza).
Nella nostra toponomastica esiste proprio sopra gli Spiaggioni
della Marossa il luogo detto “en Turbia” (luogo ove secondo la tradizione
si vanno a raccogliere i funghi rossi ‘dar sangue’) e gli Spiaggioni della
Marossa sono proprio oltre il Corvo, e presentano un’orrida paleofrana,
la cui visione potrebbe aver ispirato al poeta il prosieguo del verso «… la
più diserta, la più rotta ruina» (Purgatorio, Canto III, vv. 49-51). Ci si
potrà chiedere come abbia potuto il divino poeta vedere quella paleofrana.
È molto semplice, perché la “strada romana” che proviene da Montemarcello,
diretta a Lerici, passa proprio sopra, adiacente allo strapiombo. A dare
spessore probabilistico a questa ipotesi sta anche la toponomastica storica,
che, se non presenta il toponimo direttamente, presenta un toponimo con
lo stesso valore semantico, cioè “Ventulam”, citato nel Codice Pelavicino
nell’atto del 22 giugno 1274, indizione 2: «Masium de Rivo… et deferunt
herbas et olera et vadunt Ventulam et Maritimam et ad mare…», cioè
gli uomini della tenuta del Rivo devono muoversi nel territorio e andare
a cercare per il vescovo erbe e aromi, cioè devono spostarsi sia al monte
sia al mare. Ed è noto a tutti gli anziani che, oltre ai funghi, proprio sul
crinale si rinvengono molte erbe aromatiche ed essenze: corbezzolo
(Arbutus unedo), lentisco (Pistacia lentiscus), terebinto (Pistacia
terebinthus), mirto (Myrtus communis), il rovo (Rubus spinosus),
l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius), la mentuccia (Calamintha
nepeta). Non va sottovalutata l’importanza di questa raccolta, perché non
essendovi ancora le spezie, o essendo costosissime, si utilizzavano
lentisco, terebinto e mirto per aromatizzare e conservare le carni. Anzi, si
ritiene che il termine mortadella sia stato usato per
primo in Lunigiana, o meglio sia documentato come tale nella forma
“mortoriola”, cioè “insaccato aromatizzato e conservato con il mirto”, di cui
si ha la citazione nell’atto del 1181 del Codice Pelavicino. Si noti ancora
come nel sito ove si colloca il toponimo Turbia sia stato recentemente
impiantato l’Orto Botanico gestito dal Parco Naturale della Magra e di
Monte Marcello.
La torre Groppina, o Gorpina, e lo studio del toponimo
Salendo dalla piazzetta di Tellaro verso Montemarcello si arriva a una
terrazza di pietra sovrastante l’insenatura detta del Piastrone, e a
destra si scorge un piccolo sentiero che si addentra in orizzontale
fra i pini di Aleppo, nella costa ripida e franosa. Percorrendone un
breve tratto si arriva sotto la torre di avvistamento nota come
“Torre Groppina” o “Torre Gorpina”. Si tratta di una torre da
avvistamento che consentiva agli abitanti di Tellaro di essere avvisati
con un certo anticipo per porsi in salvo dagli attacchi dei pirati.
È interessante notare come in Tellaro esistano alcuni elementi di
storicizzazione di questa realtà che ha colpito e plasmato le
popolazioni rivierasche. La più interessante è la leggenda del polpo
che ha suonato la campana, dando così l’allarme ai paesani perché
facessero fuggire le donne e i bambini al monte, mentre gli uomini
avrebbero preparato la terribile arma di difesa, l’olio bollente!
Di questa pratica, terribile per chi la riceveva, e tanto più temibile
quanto più uno era difeso da cotte e armature, non facili a levarsi,
è rimasto il proverbio popolare “Telaro non voglio che brucia con
l’olio”. Si noti ancora come nella toponomastica di Tellaro si
riscontrino due toponimi significativi:
– a spiaza da Vitoia (la Spiaggia della Vittoria) ove sarebbero stati
inseguiti e vinti gli assalitori;
– a lama der moo (la Lama del Moro).
Per capire quest’ultimo toponimo occorre specificare che, nel tratto di
costa fra Maramozza e Fiascherino, esiste la Lama, cioè un tratto di
costa scosceso e soggetto a frane. In antico vi era, sotto la Serra,
un convento di monache, ora scomparso per frane. Il terreno infatti è
soggetto a infiltrazioni d’acqua e questa è la radice toponomastica da
comprendere, radice che si ritrova in Lunigiana nelle Lame di Aulla.
Se si guarda la lingua italiana, il termine “lama” sta per “elemento orizzontale”,
in particolare per acquitrino, acqua piatta, stagnante. In Lunigiana è
rimasta però la radice germanica klamm, che sta per “luogo ove vi sono
infiltrazioni di acqua che fanno franare il terreno”. Questa tipologia di
infiltrazioni contraddistingue appunto i toponimi in “lama” del Caprione,
e nei toponimi Chiama, Chiamici, Calamazza di Lunigiana.
Nel dialetto di Tellaro la torre è anche indicata come “Guardiea” (guardiola).
Ancora nel 1490 esisteva l’ordine di continuare a fare come
in passato le guardie ai corsari dalle alture di Punta Corvo, e ancora
nel 1660 tre trireme turche attaccarono Tellaro. Ciò è registrato nei libri
della parrocchia.
Il toponimo è controverso, perché presenta una possibile inversione
fra la “o” e la “r”, cioè Gorpina-Groppina. Entrambi hanno una
giustificazione etimologica. Gorpina è evidentemente il luogo delle
volpi (in dialetto gorpe), e le volpi qui, nella grande paleofrana, trovano
un enorme numero di tane. Groppina è invece un toponimo di
derivazione gotica, da krup-kruppa, “groppo”, cioè luogo
con presenza di grandi massi. Assai simile è la spiegazione fornita
dall’Abate Du Fresne, signore di Cange, che cita «“Groppa”, vox italica
simile al gallicismo “Croupe”, luogo arido». Gioacchino Volpe, in
Toscana Medioevale, cita un atto del 950 in cui Adalberto vescovo
conferma una concessione nel Monte de Gropina. Nel Codice Pelavicino
nell’atto del 950, evidentemente lo stesso citato dal Volpe, si legge:
«in loco ubi dicitur Monte de Gruppina» e questa è la dicitura più conforme
alla radice gotica.
Entrambi i nostri toponimi sono possibili, ma in termini probabilistici
sembra più credibile la radice gotica. Il ragionamento è il seguente:
– se si analizza il processo per cui un nome è rimasto, anche per millenni,
a indicare un preciso luogo, ciò significa che esiste un elemento che
lo ha caratterizzato (una res, come scrive il Beretta, ad esempio un
fiume, un monte) (Beretta C., 2003);
– esistono i toponimi faunistici, ad esempio a Lerici si rinviene “Arpaa”,
il luogo di rapaci (harpalios, in greco), “Coà”, il luogo ove gli uccelli
marini depongono le uova e fanno la cova, “Cucù”, il luogo
ove per primo si sente il cuculo, “Tana der farcheto”, caverna marina
nel lato orientale della Punta di Maramozza ove avrebbe potuto sostare
il falco pescatore (migratore), “Legua”, il luogo delle lepri (in lericino
legua), “Farconaa”, il luogo dei falchi, “Pernisaa”, il luogo delle pernici,
Canale de Plozii (toponimo storico del Codice Pelavicino legato alla
presenza dei rigogoli, uccelli che fanno il nido pensile, che va ricercato
nel Canale di Remaggio o in suo affluente, la “Spiazèla di muscoli” in
Tellaro, ove si potevano raccogliere i mitili (Mytilus galloprovincialis),
la “Tana del serpente”, caverna franata nella costa del Corvo, “Tassonaa”,
il luogo del tasso, “Uselea”, il luogo degli uccelli, “Volpara” o anche
“Gorpara”, la tenuta attorno al Casino di caccia del “Fodo”, ove si faceva
la caccia alla volpe, tenuta smembrata per la costruzione della strada%
La Romanità del Caprione. Tito Livio e il “saltus Marcius”
La Romanità del Caprione è affidata soprattutto alle fonti storiche. Fra
queste sovviene l’episodio di Tito Livio, che narra come «il passo dove
era stato messo in fuga dai Liguri fu chiamato Marcio», con riferimento
appunto al Console Q. Marcio, che subì una sonora sconfitta da parte dei
Liguri Apuani, tanto che i Romani uccisi furono quattromila, furono perse
tre insegne della seconda legione e undici vessilli degli alleati Latini:
«Perfectis quaestionibus prior Q. Marcius in Ligures Apuanos est profectus…Prius sequendi Ligures finemì Quam fugae Romani fecerunt… Non tamen obliterare famam rei male gestae potuit: nam saltus unde eum Ligures fugaverunt Marcius est
appellatus» (Vitali C., Storia di Roma, Libri XXXIX-XL, 1973, pp. 52-55).
La grande vittoria degli Apuani è rivendicata però dai Bagnonesi, che
hanno nel loro territorio un Pian del Marzo, e dai Castelnovesi, che hanno
Marciaso. Nel Caprione esiste il toponimo dialettale “Canae der Marso”
che da “Campo de Già” scende verso la Magra. Il toponimo figura anche
nella cartografia settecentesca come “Canale del Marzo” (si veda Studi di Lunigiana,
pp. 111-112), ma soprattutto è importante
notare che nel Codice Pelavicino esiste una pergamena del 1218 dove
è riportato l’idronimo “Canale de Casa Marcii”.
Ciò fornisce un buon indizio per accreditare l’episodio narrato da Tito
Livio nel Caprione. A ciò va aggiunto, in termini di ricerca storiografica,
che, secondo lo studioso arcolano Pietro Fiamberti, che scrisse nel 1835,
sarebbe stata trovata nel Canale del Marzo, nel 1777, una tomba con
un vaso recante l’iscrizione “Hic Jacet Corpus Quintii Martii Rom.
Coss.”. Ciò è stato riportato nella trattazione del toponimo “Caprione”
nel Tomo III della Raccolta di toponimi del territorio di Lerici, ove
si legge: «In corrispondenza del sito della battaglia del 186 a.C. si
rinvennero dei sepolcreti; ne narrano vari autori, fra cui il Promis
(Dell’antica città di Luni e del suo stato presente, Memoria Accademia
delle Scienze, Torino 1839), il Falconi (Iscrizioni del Golfo di Spezia,
Pisa 1874) e Pietro Righetti di Arcola.
Agostino Falconi all’osservazione n. 4 riporta:
“Iscrizione spuria stata rinvenuta, secondo Pietro Rigetti (a) sul Monte
Caprione, presso il rivo del Marzo: Hic jacet corpus quintii martii rom.coss.
In calce è riportata la nota (a): Vedi a pag. 22 delle Osservazioni
critiche sui cenni storici del Comune di Arcola del Dottore Giovanni
Fiamberti. Rintracciato detto scritto se ne riproducono i contenuti e le
relative note, che corrispondono, ampliandole, con le notizie fornite
dal grande studioso Carlo Promis.”
Dalle Osservazioni critiche di Pietro Rigetti si legge:
“… un sepolcro scoperto l’anno 1777 nel Monte Carpione presso il
canale del Marzo con entro un elmo (5), ed un vaso di pozzolana pieno
di cenere e di frante ossa con l’iscrizione ‘Hic jacet corpus Quintii Martii
ROM.COSS’ (6) appalesa ad evidenza la rotta ch’essi diedero al Console
romano nel luogo appunto che al dir di Livio fu già sede dei loro maggiori
(1)”. Si riportano le note:
Nota (5) Quest’elmo fu poi comprato da un certo cotal Antonio Salvetti già calderajo, or macerato dalla miseria e reso da molti anni impotente. Costui in Sarzana sua patria fattolmi venire a bella posta in casa dello Ill.mo D. Domenico Canonico Piccini mio amico, me ne confermava la compra da lui fatta.
Nota (6) Vedi gli annali di Genova: De dominii sereniss. Genuensi Reipubb. in
mari ligustico, citati da un antico Mss. che ho in questo momento sotto gli occhi.
Nota (1) Sembra dunque fondata l’opinione di quei tali che asseverano essere la
rotta del Console Marzio in quel luogo avvenuta che vien detto Marciasio nel
Marchesato di Fosdinovo; oltre il suddetto epitaffio è la storica nostra relazione
afforzata dall’autorità di Livio, il quale ne dice assai chiaro che il luogo ove i Romani
furono dai Liguri battuti fu in appresso chiamato Marzio.»
Ritengo opportuno riportare quanto ho scritto alla pag.111 del libro
Studi di Lunigiana: «Secondo alcuni l’imboscata fu tesa all’esercito
romano che si era addentrato nel canale di Romito, come mostrerebbero
alcuni ritrovamenti fatti nell’ultimo dopoguerra da alcuni contadini
che scavavano fosse per piantare viti. Poiché i morti furono quattromila,
così dice Livio, ma si ritiene che il numero possa essere stato gonfiato,
si deve ritenere che la fuga delle avanguardie romane possa essere
avvenuta anche dal “saltus Martius”, cioè avanguardie già salite sul
Caprione e retroguardie ancora transitanti nel canale di Romito.»
Non sarebbe altrimenti stato possibile avanzare con un esercito di oltre
quattromila uomini in un terreno così impervio, salvo addentrarsi nel
Canale ora chiamato di Romito, in antico chiamato Canale di Remaggio,
nome che deriva appunto da Rivus Major.
Sarebbe stato possibile anche in un altro modo, cioè disponendosi in
tecnica di guerriglia, avanzando in ordine sparso in piccoli gruppi,
cosa che i Romani non avevano ancora capito, tanto che avanzarono
con le insegne e con i vessilli, che persero inevitabilmente nella
spasmodica fuga, tanto che «prima cessò l’inseguimento dei Liguri
che non la fuga dei Romani.»
Un guado romano nel Magra?
Ennio Silvestri, nella seconda edizione del libro Ameglia nella storia
Lunigiana, alla pagina 73, scrive: «Di fronte al Canale del Marzo, nella
piana omonima che già era formata in epoca romana (si osservino le
altimetrie) era il punto più stretto del corso del Magra.»
Aggiunge il Silvestri che negli Statuti sarzanesi del 1330, al capitolo
“De puntis faciendis”, si accennava a un «puntem de Cursu Blaevi
subtus ripam flumninis.» Può darsi che i sarzanesi abbiano fatto un ponte
proprio in continuità con il cosiddetto “corso delle messi”, cioè la
strada dritta che portava ai campi e al Magra, ma è ben difficile che
questo ponte abbia potuto sfidare i secoli, perché ponti ben più moderni
sono crollati nell’alveo della Magra. Personalmente ho vissuto l’episodio
di stare per entrare nel ponte, diretto a Romito Magra, e di vedere le
spalline in mattoni rossi che cominciavano a sgretolarsi. Una gran frenata,
una fulminea marcia indietro, per poter vedere il ponte sgretolarsi.
Era il 1967 ed era un ponte nuovo, costruito con tecniche moderne dopo
la Seconda Guerra Mondiale.
I Romani, maestri nel costruire ponti, potrebbero aver valutato la
impossibilità del costruire un ponte nella Magra, e avere invece costruito
un guado. Si deve infatti valutare che duemila anni fa il mare non era molto
lontano dalla Piana del Marzo, e ciò spiegherebbe anche il toponimo
etrusco “Pentema” (cippo di confine) poco più in alto, presso San Genisio,
al di sopra dell’attuale nuovo ponte. Secondo il Silvestri, in questa zona
vi fu anche il ritrovamento di monete romane. La risorsa del guado ha
generato il successivo toponimo di “Guado del cane”, ma la prova
provata si è avuta con l’affioramento di tratti di conglomerato di malta,
venuti alla luce nel 1977 a seguito dell’abbassamento del letto del fiume
e del prelevamento di inerti, proprio nella “Piana del Marzo”. Tecniche
costruttive simili fanno pensare proprio a opere della romanità.
La villa romana di Bocca di Magra
Nella estrema punta del promontorio è emersa la presenza di una Villa
Romana con ipocausto, cioè una villa dotata di riscaldamento a pavimento,
nella parte padronale, che sancisce l’importanza del Caprione come
luogo di svernamento di famiglie ricche dell’aristocrazia romana.
Il sito è stato scavato ed è documentato dalla Sovrintendenza, che lo ha
classificato come “Villa marittima di età imperiale (I sec. a.C- IV sec. d.C.)”.
Oltre al clima, una delle ragioni per cui è stato scelto quel sito per
costruirvi una villa potrebbe derivare dalla vicinanza delle sorgenti
ferrose della Ferrara, con i relativi fanghi, che hanno lasciato ancora
oggi il toponimo dialettale “Pantaiè”. Va detto che questa ipotesi è
sostenuta dalla lettura delle Carte del Monastero di San Venerio
del Tino, ove vengono citate le donazioni dei Marchesi Obertenghi
al monastero:
– “actum loco Pantaleo feliciter” (atto del 1060);
– “loco dicto Pantea”, presso la chiesa di “Sancti Mauricii”
(atto del 1276);
e dalla lettura della pergamena del Codice Pelavicino del 1276,
in cui è citato il luogo “Pantaleo”.
Stupisce scoprire che, in un luogo che denota presenza di pantano, si
firmassero atti ufficiali dei Marchesi Obertenghi, massimi signori di
Lunigiana, e non per ragioni impellenti, cioè in condizioni di estrema
necessità (guerre, sommosse, ecc.), bensì in condizioni di grazia (“feliciter”).
È da ritenersi che i Marchesi fossero qui attratti dalle virtù curative
delle acque ferrose, efficaci per le malattie del sangue, nelle anemie, con
effetti anti-depressivi e anti-stress, nonché dai fanghi utili per
curare le artrosi. A completamento dell’indagine va detto che la studiosa
Gabriella Chioma, nell’articolo “Dal fiume Agau al corso del Lagora”,
riporta la notizia che quest’acqua ferrosa «ai primi del nostro secolo
sarebbe stata messa industrialmente in commercio… col nome di acqua
minerale della Ferrara.» Questa analisi parrà a molti priva di fondamento.
Va però ricordato che, in Latitudine eguale a quella della Fonte della
Ferrara, esisteva dall’altro lato del Caprione, nel versante a mare, il
toponimo “Terme di Guglielmo”. Secondo il Silvestri le terme erano
romane (Ameglia nella storia…, p. 308).
Questo toponimo storico si rinviene nella carta del Brigadier Generale
Vinzoni, in vicinanza di Zanego-Groppina, sopra gli spiaggioni della
Marossa. In questo stesso territorio vi era una miniera di minerale di
ferro, per il cui sfruttamento risulta stipulato nel 1281 un contratto:
«28 marzo 1281, Rosso, pomellerio… cede a Moroello Ferrario da Pignone 1/12 d’una miniera di ferro trovata al Corvo, comprata da Guglielmo d’Ameglia, confinante
inferiormente con il lido del mare, superiormente con la costa di detto
monte del Corvo, da un lato con la terra degli uomini di Barbazano,
e dall’altro colla terra della chiesa di S. Croce» (Francesco Poggi, Lerici e il suo castello, Vol. I, p. 243).
I continui grandi sconvolgimenti che affliggono il litorale, attraversato
da master-faults, hanno evidentemente fatto scomparire il luogo ove
esistevano queste terme. Rafforzano inoltre la storicità della
frequentazione del promontorio del Caprione e del Corvo da parte dei
Romani i versi scritti dal poeta latino Aulo Persio Flacco, che amava
godersi il tepore invernale della riviera bagnata dal mar Ligure, in un
golfo protetto da un grande promontorio:
«… mihi nunc Ligus ora
intepet hibernatque meum mare, qua latus ingens
dant scopuli et multa litus se valle receptat.»
Dalla traduzione «…qui dove enormi scogli formano protezione ad un
profondo golfo con molti approdi» sembra potersi dedurre che il poeta
si riferisca al seno di Muggiano, protetto dalla traversia dominante
dalla Punta del Calandrello, e ricco di acque (se ne veda la trattazione
nel quaderno del territorio a titolo Raccolta di toponimi…, Tomo I,
voce “Bagni, bagnuolli”; e nelle voci “Bagni” e “Muxano” nel libro
Studi di Lunigiana).
Secondo quanto ci raccontava, prima della lezione
vera e propria, il defunto parroco di Muggiano, il famoso Don Aurelio,
benvoluto da generazioni e generazioni di capitani e macchinisti dell’Istituto Nautico “Nazario Sauro” della Spezia (il quale, stranamente,
ogni tanto accennava che in futuro sarebbe stata inventata una macchina
per poter riudire le voci, fra cui quella di Giulio Cesare quando arringava
le truppe per passare il Rubicone), facendo dei lavori attorno alla chiesa,
e in civili abitazioni circostanti, sarebbero stati trovati dei pezzi di
pavimento a mosaico (di una villa romana?), mentre un’altra costruzione
sarebbe stata più in basso, ove ora è il cantiene navale. Così, secondo
racconti di operai, alcuni decenni fa, durante lavori di sterro all’interno
del cantiere navale, sarebbe emerso un pezzo di marmo lavorato, portato
in discarica. In ogni caso, ad affermare la presenza di costruzioni romane
a Muggiano, bastano i reperti riportati in una fotografia di Rodolfo
Zancolli del 1939, che risultavano venuti alla luce nel 1918 (foto N. 109,
“L’Archivio Fotografico del Comune della Spezia”).
L’angulus o angelo o pilastro alla foce della Magra
Fino a qualche decennio fa era possibile vedere, in mezzo al mare, a
poche decine di metri dalla foce della Magra, una costruzione, o meglio
un rudere, che veniva chiamato pilastro o angelo (da angolus) e che è
da ritenersi un resto di una struttura al servizio del porto romano di
Luni, forse per funzionare come fanale. Questa costruzione sarebbe
da mettere in collegamento con altra struttura similare presente ancora
nelle rovine di Luni, nel settore più vicino a quella che doveva essere
una linea di battigia, calcolata con un arretramento del mare, causato
dal trasporto degli inerti dalla Magra, di almeno mille metri.
Personalmente ricordo di aver visto in Luni, cinquant’anni fa, in
prossimità di un grande pioppo, un tratto di strada più elevato, che
aveva il cordolo in mattoni e portava infissi degli anelli, simili a quelli
che si vedono nei moli per ormeggiare le barche. Lo attraversai con la
bicicletta e mi fermai per vedere gli anelli. Verosimilmente si trattava di
un molo del porto della città di Luni (non il Portus Lunae di cui parla
Strabone) che avrebbe potuto essere dotato, come fanali di atterraggio,
di un sistema di fuochi, di cui uno in prossimità del promontorio, per
evitare alle navi di andare in secca o contro gli scogli. Per l’appunto
l’Angulus o Angelo, visibile in una bella fotografia degli Alinari, fatta
nel 1887, riprodotta al N. 87 del catalogo “Archivio Fotografico del
Comune della Spezia” con la seguente didascalia: “Lo Scoglio detto
dell’Angelo, nucleo di calcestruzzo di Epoca Romana”.
La cisterna romana di Senzano
Dalla cava dei Branzi, ove è stata rinvenuta la prova delle concrezioni
saline dovute alle acque termali che ora sgorgano a mare lungo la
costa di levante del golfo, si vede la sottostante dorsale di Senzano,
(in dialetto Sensan) ove è stata rinvenuta una cisterna romana.
Il toponimo è di origine latina, dal gentilizio Sentius, uno dei più
bei toponimi latini del Caprione e del Corvo. Gli altri sono:
Balognano (Baugnan), di incerta etimologia; secondo il Flecha
potrebbe derivare da un fundus Volumnianum, che
si ritrova anche come saltus Volumnianus. Forse
toponimo di origine etrusca dalla divinità Voltumna?
Barbazano (Barbasan), dal gentilizio Barbatus;
Carbognano (Carbognan), dalla gens Carbo;
– Sepiano o Scipiano (Sepian), dal gentilizio Scipius o da Seppianus?;
– Serviliano (Sevigian), dal gentilizio Servilius;
– Verazzano (Veasan), dal gentilizio Veratius o, secondo alcuni, dalla
indicazione dei veterani ai quali, dopo aver vinti i
Liguri, era stata assegnata una porzione di territorio
di 51 Jugeri e mezzo (da veterius).
Il sito di Senzano è molto interessante perché, oltre a molti cocci romani,
vi è stato rinvenuto un fondo di anforetta portante inciso il timbro dei
produttori, i fratelli Rufus, operanti ad Arezzo e a Luni nel I sec.
d.C., reperto che è stato segnalato e consegnato alla Sovrintendenza.
Non è solo questo che rende interessante il sito, bensì la presenza di un
muro di buona fattura che farebbe pensare a un recinto di difesa, alla
presenza cioè di un presidio di guardia a un sito di approvvigionamento,
un posto tappa. La cisterna è all’interno di un terreno privato e non è
visitabile. È molto interessante notare come si abbia corrispondenza fra
il toponimo latino e la presenza di reperti romani. Ciò si verifica anche
in Carbognano, luogo ricco di acque sorgive. Anche qui sono stati
rinvenuti cocci di tegoloni romani, senza però poter risalire a una
qualche tipologia di costruzioni. Secondo alcuni i cocci trovati a
Carbognano non sarebbero derivati da costruzioni in loco, bensì
sarebbero scivolati dall’alto, proprio da Senzano, per dilavamento
dei terreni. Nel sito di Sepiano esisteva una torre da guardia, costruita
nel 1487, che in seguito venne usata come punto di triangolazione del
territorio. Il toponimo è citato come “vineas de Sepiano” in un documento
del Codice Pelavicino del 1196.
Secondo il racconto del Canonico Monsignor Luigi Rolla, nell’Ottocento
sarebbero state rinvenute tracce di un ponte di origine romana nella
piazza di Lerici, per l’attraversamento del Canale di Carbognano.
Una analoga notizia, che narra della presenza romana in Lerici, ci viene
dal Falconi, che riporta quanto sarebbe stato scritto in una lapide relativa
alle Stazioni Ericine, cioè alla stazioni di rimessaggio invernale delle navi
nel Golfo della Spezia, l’antico Portus Lunae. Secondo Ippolito Landinelli
questa lapide sarebbe stata in Sarzana, in Casa Mascardi, e un’altra simile
sarebbe stata in Roma, nel palazzo del Cardinale Montepulciano, in
Via Giulia:
S.C.
LUNAE HETRUSCAE
INCOLIS INQUILINISQ.
POP.ROM.AMICITIAM B.M.A
MARI AD ALPES AD
MONTES LIGURUM
AD FLUMEN APUAN.
AGROS IMMU. COLERE
VECTIGAL A VIATORIBUS
EXIGERE PORTUS
ERICINASQUE STATIONES
HYEM. TENERE CONCESS.
CONSS.
Indipendentemente dal fatto di dover riconoscere se la lapide fosse
vera, sembra contenere una veritiera affermazione, e cioè che fosse
utilizzato il golfo, o meglio il Portus Lunae, per il rimessaggio invernale
delle navi. Sulla collocazione del Portus Lunae nel golfo della Spezia
esiste una profonda spaccatura fra gli studiosi sarzanesi e spezzini.
Sembra però impossibile accettare l’esistenza di una fondata ragione
per una simile diatriba, se non il campanilismo. Lo scritto di Strabone
è assai preciso e non lascia dubbi:
«La città non è grande; il porto, invece, è molto grande e molto bello.»
Già da questa prima descrizione si deve capire che bisogna cercare
altrove, e non a Luni o nella sua piana, il Portus. Non solo, ma viene
fornita una ulteriore specificazione: «… esso racchiude nel suo perimetro
molte rade, tutte profonde.»
Per chi conosce la storia dei trasporti degli inerti da parte della Magra
viene il dubbio che il golfo determinato dall’estuario di questo fiume,
a carattere torrentizio, possa permettere dei fondali profondi, come
invece sono i fondali all’interno del golfo, che non vengono
modificati da alcun apporto di fiumi.
Sovviene in questo senso la Legge di Ferrel, che indica come il moto
dei filetti fluidi subisca l’effetto della rotazione terrestre, per cui le
acque più veloci e vorticose della Magra vengono sospinte verso la
ripa del promontorio del Caprione (destra idraulica), lasciando le acque
più lente verso la sinistra idraulica, con conseguente deposito di inerti
che fanno diminuire i fondali e fanno arretrare la linea della battigia.
La città di Luni finì, oltre che per terremoti e incendi, proprio per
l’interramento del suo porto, così come più tardi si insabbiò il
Porto di San Maurizio o della Seccagna, alla foce della Magra.
Continua Strabone dicendo che il Portus Lunae «offre anche tutti
i vantaggi che ci si attende da una base navale utilizzata dagli uomini
aventi imposto la loro talassocrazia su un mare così vasto e per lungo
tempo.» Trattasi ovviamente degli Etruschi, che avevano certo altri
porti, ma che non potevano trovare altrove una rada così grande e così
protetta come il Golfo della Spezia, tant’è vero che è tutt’oggi una base
navale della Marina Militare Italiana, dopo essere stata scelta da
Napoleone per fondarvi una grande base navale e la città di Napoleonia.
Nel suddetto senso si pronuncia anche il traduttore di Strabone dell’Università
della Sorbona, che indica come «l’expression latine Lunae
Portus, mentionnée déjà par Ennius, Ann., fr. 16 Vahlen, et rapportée
à la forme semi-circulaire du golfe de la Spezia. Cf School. Pers., VI, 1
et 9 portum in modum lunae factum. La source est ici Posidonius.»
In questo senso sembrano concordare anche i versi di Silio Italico
(Lib.VIII), che denotano soprattutto la grande estensione del porto,
attraverso l’uso di aggettivi e di forme comparative, che possono soltanto
riferirsi al Golfo della Spezia:
«Tunc quos a niveis exegit Lunae metallis
Insigni portu, quo non spatiosor alter
Immensasa coepisse sic rares, et plaudere pontum…»
Lucano invece ci assicura che le navi più pesanti, costruite con il
legno di ontano (alnos), che ha un elevato peso specifico, non
potevano entrare nella Magra:
«… nullasque vado qui Macra moratus
Alnos, vicinae procurrit in aequora Lunae…»
Tutte le fonti antiche sembrano quindi concordare.
La nave affondata nel seno di Calasolitana (La Caletta di
Maralunga)
Nella costa orientale del golfo si notano due toponimi assai simili,
Maralunga e Maramozza, definiti morfologicamente dagli aggettivi
italiani, ma con una base molto più antica, “marra”, connotata dalla
caduta dialettale di una “r” in entrambi, che potrebbe essere pre-
latina. Il termine viene a identificare sia uno strumento per incidere
la terra o il legno, a base larga, ad esempio il marrapicco, anche detto
marrascura, utilizzato per pulire la corteccia degli alberi di olivo,
portante da un lato la terminazione come l’ascia e dall’altro come la
scure, sia per indicare la marra dell’ancora, sia per indicare un torrente
di montagna, sia per indicare un deposito di detriti. Nello Straviario
l’Ambrosi riferisce che «per la Liguria Nino Lamboglia aveva
postulato, accanto a corso d’acqua, anche il signifcato di “scoscendimento
alluvionale, sasso, roccia.” Questi due ultimi significati sembrano
attanagliarsi bene al nostro caso.»
Fra le due penisolette si ergeva in antico una piccola lingua di terra, che
aveva dato luogo al toponimo “Calasolitana”, citato in una pergamena
del Codice Pelavicino del 20 luglio 1283: «quam et quod et quas habet,
tenet et possidet in Barbazano et pertinenciis et specialiter in M.rlamoza
et Calasolitana.» Nella carta del 1817 del Genio Militare, redatta da G.B.
Chiodo e da S. Balbo, attualmente conservata a Firenze presso l’I.G.M.,
e portante il titolo “Pianta del Porto di Lerici nel Golfo della Spezia con
l’indicazione dei lavori progettati per il suo miglioramento”, è possibile
verificare come l’attuale “scoglio del Macellaio”, che è all’interno del seno
di mare delimitato da Maralunga e Maramozza, era prima congiunto con
la terraferma. Questa carta è stata pubblicata alla pag. 274 del libro
Carte e cartografi in Liguria (Quaini M., 1986).
Questo particolare è molto importante, perché consente di capire come
sia stato possibile inviare alla Sovrintendenza Archeologica della Liguria
una segnalazione su una possibile presenza di reperti subacquei, relativi
a un tempio franato in mare oppure derivati da un naufragio.
Le notizie che circolavano a Lerici parlavano di uno strano oggetto rotondo,
che compariva alla Caletta in particolare condizioni del fondo sabbioso.
Secondo alcuni poteva addirittura essere un oggetto relativo agli sbarramenti
subacquei della Seconda Guerra Mondiale. Preso atto della franosità
della costa, dimostrata da più episodi geologici accaduti in varie epoche
(la scomparsa delle Terme di Gugliemo sopra alla Marossa,
del promontorio che difendeva l’approdo di Barbazano e
della Tana del Serpente all’estremità del Corvo), la scomparsa della lingua
di terra di Calasolitana avrebbe potuto trascinare a mare qualche antico
tempio, costruito in quel pittoresco punto della costa. Da ciò nacque una
discussione nella Sezione Ecologica dell’Associazione di Pubblica
Assistenza di Lerici, che coinvolse anche il rappresentante di Italia
Nostra, geometra Francesco Ginocchio, che portò a una segnalazione
alla Sovrintendeza Archeologica per la Liguria, fatta su carta intestata
dell’Associazione di Pubblica Assistenza di Lerici.
Le ricerche effettuate hanno messo in luce non la favoleggiata traccia
del tempio di Venere Ericina, bensì un relitto di nave oneraria romana
affondata, adibita al trasporto di grandi pezzi di colonne destinate a
un qualche costruendo tempio, nave probabilmente colta da maltempo
mentre navigava al largo. Sorse però un’altra ipotesi, che la nave non
navigasse al largo e che potesse esistere un progetto di costruire un
tempio proprio sulla Punta di Maralunga, ove è possibile verificare uno
scavo fatto nella viva roccia per ottenere tre grandi piattaforme a gradoni,
sul cui uso nulla si conosce.
Dopo l’acclarato ritrovamento della nave
affondata e delle parti di colonna trasportate, inspiegabilmente si è alzata
in Lerici una sarabanda per capire di chi fosse il merito della segnalazione.
Vi fu anche chi disse di aver egli fatto in precedenza una segnalazione, non
scritta, alla Sovrintendenza, ma di non aver avuto credito. Di ciò vi fu anche
una lettera inviata a un quotidiano locale. Sta di fatto che, in quanto
presidente pro-tempore della più grande “universitas” di persone lericine,
ho inviata la lettera di segnalazione, fatta firmare anche dal rappresentante
di Italia Nostra.
Il primo elemento di colonna, sollevato dal fondale con l’ausilio di un
pontone-gru della Marina Militare, trattato adeguatamente in varie soluzioni
saline per non farlo decomporre, è stato messo in mostra nell’area archeologica
di Luni, in quanto il Comune di Lerici non è stato capace di preparare
una adeguata piattaforma per potervi costruire sopra, in tutta la sua
imponenza, la colonna romana, composta di tutte le sue tre parti.
Ciò sarebbe stato un degno modo per celebrare le Ericinasque Stationes!
Sarà possibile rimediare in futuro a questa perdita, inopinatamente
sofferta dalla comunità lericina?
Il promontorio del Caprione nella cartografia di Tolomeo
Tolomeo è uno dei più grandi astronomi e cartografi dell’antichità (85-165 d.C.).
Nato in Egitto, visse e operò in Alessandria nell’epoca degli
Antonini. Egli era ancorato alle credenze antiche, quindi credeva che il
Sole e la Luna ruotassero attorno alla Terra, così come le stelle fisse,
poste su una sfera molto lontana dalla Terra. Egli credeva nella rotondità
della Terra, immobile al centro dell’universo. Credeva che le orbite degli
astri fossero perfettamente circolari e che questi si muovessero di moto
uniforme. Per cercare di correggere le osservazioni di anomalie emergenti
in questo sistema astronomico complesso, egli ideò la teoria degli epicicli
e dell’eccentrico.
Il grande merito di Tolomeo fu però quello di avere scritto la Mathematike
Sintaxis, chiamata dagli astronomi alessandrini Megale Sintaxis, nota
nel Medioevo come “Almagesto” o “L’Almagesto”, dalla denominazione
araba “Al Madjisti” datagli quando venne fatta la traduzione in arabo
all’epoca da Harun-ar-Rashid. Questa è l’opera più completa sulla
conoscenza delle stelle e delle costellazioni nel sistema geocentrico.
Suo grande merito fu anche quello di avere prodotto la cartografia del
mondo allora conosciuto, per rispondere a un’esigenza dell’impero
romano. Secondo alcuni studiosi le tavole che accompagnavano il
testo di Tolomeo sarebbero state fatte nel IV-V secolo d.C. da parte
di Agatodemone Alessandrino.
Ma ancora di più fu merito di Tolomeo avere calcolato la latitudine e la
longitudine di 8.000 luoghi importanti dell’antichità.
Nel novero di questi figurano, oltre a Porto Venere, i seguenti:
Golfo di Lerici 31° 15’ Longitudine 42° 55’ Latitudine
Foce del fiume Magra 30° 45’ Longitudine 42° 45’ Latitudine
Deviazione del fiume Vara 31° 30’ Longitudine 43° 00’ Latitudine
Mentre le latitudini possono essere considerate accettabili, le longitudini
risentono della difficoltà di impostazione concettuale derivanti dalla
accettazione, da parte di Tolomeo, del valore di 180.000 stadi, proposto
da Posidonio, per la lunghezza della massima circonferenza terrestre,
valore enormemente errato rispetto a quello proposto da Eratostene,
di 40.000 chilometri, basato sullo studio dell’ombra al Solstizio
d’Estate ad Assuan e Alessandria (differenza angolare di 7° 12’),
valore che non venne creduto.
Va notato che nella Tabula Sexta, compresa nel Codice Lat. V F. 32
custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, figurano i seguenti
toponimi:
– pmõt (promontorio)
– luna
– folle papiriane.
– macra f.
– ericis portus
– veneris portus.
Mentre l’indicazione del promontorio e l’indicazione della foce del
Magra era importante per la navigazione, l’indicazione del toponimo
“folle papiriane” (oggi Follo) e della confluenza Vara-Magra era
importante per le comunicazioni terrestri verso la Francia, lungo il
corso del Vara, e verso la Germania, lungo il corso del Taro.
Una strada romana nel Caprione?
Nella tradizione orale di Tellaro esiste la denominazione di “strada
romana” per un tratto di mulattiera che esiste fra Zanego e Monte
Marcello. Questo toponimo non è di per sé prova che i Romani
abbiano costruito strade nel Caprione, quasi certamente già servito
da sentieri costruiti dai Liguri (il tentativo di penetrazione costato
4.000 morti al Console Quinto Marcio avvenne senz’altro su questa
viabilità primitiva). Ciò che stupisce della mulattiera di Monte
Marcello è la sua perfetta linearità, per lo meno nel tratto in salita
che dalla Valletta arriva allo strapiombo della Gruzza e che in piano
continua verso Zanego. Questo modo di costruire è tipico dei Romani,
così come la lastricatura corrisponde alla tipiche strade romane di
montagna. Altro toponimo dialettale di “strada romana” si ha nel tratto
di mulattiera che da Pozzuolo scende in Bagnara.
Due indicazioni documentali di strade romane si hanno a Lerici
nella delibera comunale del 1825 che elenca le strade del territorio.
Si tratta di mulattiere, salvo l’unico tratto di strada carraia che
da Lerici, con un ponte del XVII sec. costruito al Guercio nel
punto in cui il canale di Remaggio incrocia il canale di Bonezzola,
portava alla scafa della Magra a San Genisio, sotto Trebbiano.
Circa la strada che da Lerici conduceva a Bella Vista, si legge la
indicazione “Strada antica Romana”, mentre circa una strada che
correva in linea di livello fra Lerici e Botri si legge l’indicazione
“strada spianata Romana”.
Nonostante le autorità archeologiche non prendano in
considerazione l’ipotesi che la strada di Monte Marcello possa
essere romana, una ipotesi di strada che dal “guado del cane”
(il guado in malta, che si ritiene costruito dai Romani) salisse fino a
San Lorenzo e da qui scendesse con un ramo fino a Lerici e, continuando
raggiungesse Solaro (si veda l’Ortomagno, considerato di origine
romana), Pozzuolo, Pitelli e quindi Arcola e poi il Termo-Melara,
sarebbe invero credibile. Questa strada avrebbe dovuto essere collegata
con il tratto di crinale che da Monte Marcello portava a Senzano, per poi
collegarsi con il tratto proveniente da San Lorenzo.
Per ora, finché non verranno trovati reperti al di sotto delle strutture
citate, non si potrà parlare di strade romane nel Caprione (anche se è
certo che i Romani vi insediarono i loro “equites”).
PARTE QUARTA
IL MEDIOEVO
Il Medioevo nel Caprione e nel Corvo
L’interesse dello studio delle emergenze che il Medioevo ha lasciato
nel Caprione sembrerebbe facile, prendendo atto anche solo
della presenza dei castelli di Lerici e Ameglia. Ma non è così.
Il Codice Pelavicino, il più insigne documento di Lunigiana, ci fornisce
la documentazione dei contratti medioevali in uso nelle varie “mansio”
del promontorio, sia prima dell’avvento dell’uso dei canoni in moneta,
sia dopo la loro introduzione. L’interesse per questa
comparazione è così importante che una studiosa dell’Università
di Mosca venne a Sarzana, in un periodo in cui il Marxismo era in auge,
per poter esaminare il Codice e confrontare i corrispettivi in natura con
i corrispettivi in denaro.
Altra documentazione relativa a questi tipici contratti medioevali si
ritrova nei volumi di Francesco Poggi a titolo Lerici e il suo castello,
ed è stata sintetizzata nel quaderno del territorio a titolo Elementi di
micro-storia economica nel territorio di Lerici (Calzolari E., 1985),
per renderla più facilmente accessibile a chi vuol conoscere la storia
locale. Per rimarcare l’interesse su questa materia è stato anche
pubblicato un quaderno del territorio a titolo I Contratti di Portesone
(Cabano G., 1988), in cui vengono specificamente
presentati i documenti del Codice Pelavicino relativi al villaggio pastorale
di Portesone, quindici case costruite su uno strato di roccia affiorante,
che, pur nella loro pochezza, avevano avuto un signore della portata
di Branca Doria, personaggio citato da Dante nella Commedia.
Portesone, villaggio agricolo-pastorale
Portesone è tipico toponimo medioevale, meglio da intendersi come
“partesone”, cioè “grande tenuta, grande mansio”, in rapporto alla più
piccola tenuta di “Partesella”, “piccola mansio”, citata nel diploma
di Federico Barbarossa del 1185 in cui vengono sanciti i diritti del
vesovo-conte di Lunigiana. Portesone è anche tipico nella struttura,
con costruzioni a due piani, di cui quella inferiore usata come stalla,
e quella superiore come abitazione. Si ritiene utile riportare la
descrizione di questo villaggio così come pubblicata nel quaderno del
territorio curato da Gino Cabano: «Su alcune abitazioni si possono ancora
intravvedere accessi esterni elevati ai primi piani. Questi portali, attualmente
murati e privi di scale, lascerebbero supporre l’accesso mediante scale
mobili in legno. Tutto ciò per una maggior difendibilità del borgo, cui va
riferita anche la totale mancanza di finestre, sostituite da piccole feritoie
sia sui lati esterni che su quelli interni del villaggio. Un particolare, che
non può sfuggire a chi attraversa il borgo, è la totale assenza dei
camini, che sicuramente denota la semplicità e la antichità del
villaggio, e, nel medesimo tempo, fa supporre l’utilizzo del sottotetto
quale essiccatoio. In tutte le costruzioni è presente l’aia o “chiostro”
tipico delle strutture rurali.»
Ancora viene spiegato come soltanto le mura perimetrali fossero in sasso,
fissato con malta e scaglie, mentre tutto il resto era in legno. Il tetto veniva
costruito con un grande tronco, appena sbozzato, su cui si posavano
travicelli minori, sopra i quali si posavano le tavole che sorreggevano la
copertura in ardesia. Interessante è anche l’osservazione delle tipologie
dei vari portali, sia con architrave monolite in pietra, sia con architrave
in legno, sia con arco in pietra ribassato, sia con arco sostenuto da
architrave. Gli atti che riguardano Portesone si trovano sia nel Codice
Pelavicino, in numero di sei, sia nelle carte dell’Abbazia del Tino, in
numero di cinque, sia nel Registrum Vetus del Comune di Sarzana,
uno soltanto.
Per significare quanto la documentazione relativa a Portesone ci introduca
nel Medioevo basta leggere l’atto N. 496 del Codice, del 13 gennaio 1285,
relativo a un contratto di compravendita di un terreno sito in Portesone,
in cui vengono cedute anche le famiglie che vi vivevano e lavoravano la
terra, con atto di sottomissione al nuovo signore.
Fra i contratti si citano il censo, l’enfiteosi, il livello (libellaticum), la
soccida. L’obbligo contrattuale si può estendere anche agli eredi, come si
legge in un contratto stipulato in Ameglia fra il castaldo del Vescovo Pietro
ed Erbello del fu Trebianello della Cala, che impegna sé e i suoi eredi
ad abitare, bonificare e lavorare una giova di bosco in Portesone, dal
giorno del contratto, 11 novembre 1189, in perpetuo, pagando alla Curia
annualmente un denaro e la quarta parte dei prodotti. Si noti come il
contratto venga stipulato il giorno di San Martino, quando si tiravano le
somme delle annate, si rinnovavano i contratti agrari e si assaggiava il
vino nuovo.
In un atto del 1235 del Codice Pelavicino il Vescovo Guglielmo affitta
una terra in Piccetta (pertinenza di Portesone che trae il nome dal piceus,
“pino”) coltivata in parte a vigne, in parte piantumata con olivi e fichi.
Si noti come al Vescovo spettino annualmente quattro congi e mezza
libra di olio buono, più il diritto di omaggio, più i diritti di consuetudine
(communium et factionum).
Nell’atto N. 496 del 3 gennaio 1285, la signora Garfagnina, a causa di
debiti, vende, trasferisce e cede al vescovo Enrico un terreno con Nicolò
del fu Bonaventura di Portesone, i fratelli Corrado e Conforto e i figli
del fu Simone, fratello del detto Nicolò, Bonafemina del fu Raffino,
Meglioruccio del fu Boninsegna, vassalli e fedeli. Il vescovo acquista
nella sua totalità tutti e ciascuno dei fedeli e dei vassalli, i villani e gli
ascritizzi, i sottoposti di ciascun genere e tutti i fitti, i redditi e i
tributi, le prestazioni d’opera, con ogni diritto delle persone, tenute,
proprietà, case per VII lire imperiali.
Nel 1125 il Vescovo Andrea conferma all’Abate del Monastero del
Tino tutti i possedimenti che il Monastero ha in Portesone e concede
tre jugeri di terra in cambio di tre denari di Lucca, concedendo anche
il diritto d’uso dell’acqua, i pascoli e i boschi agli uomini che abitano
in Portesone.
Interessante è anche una formula di maledizione nel caso venisse
violato il patto per la cessione di una decima all’Abate Giovanni
del Monastero del Tino, da parte dei fratelli Azzo, Guazo e
Guillizone, marchesi obertenghi, sui terreni che essi hanno in
Portesone. L’Abate promette di commemorare l’anima del loro
padre nell’anniversario della morte, ma l’atto termina con la
maledizione in nome del “Padre, Figlio e Spirito Santo” nel caso
in cui venisse violato il patto.
La lettura dei contratti ci introduce in pieno nella vita medievale,
anche attraverso i vari modi di lavorare la terra:
– debelis, il “debbio”, consistente nel bruciare la vegetazione,
ottenendo la pulizia del terreno, lo sgretolamento dei
sassi, la concimazione con i sali delle ceneri;
– runcare, cioè “utilizzare la roncola” per tagliare la vegetazione,
svellere le radici infestanti, raccogliere i sassi ai
margini del campo, quindi bruciare legna, rami, foglie
per concimare il terreno;
– fornellare, cioè “pulire il terreno” come nel runcare, bruciando
però i vegetali in un apposito spazio rotondo, ricavato
con sassi e zolle erbose, posto ai bordi del campo.
Una visita al villaggio pastorale di Portesone è capace di mettere
stupore sulla semplicità della vita agraria del Medioevo, in questi terreni
collinari caratterizzati dall’ecosistema pecora-olivo.
L’olio di oliva cantato dal Petrarca
Va in proposito ricordato che il Petrarca, che ben conosceva il
Caprione perché si imbarcava e sbarcava nel porto di Lerici quando
doveva viaggiare da o per Avignone (utilizzando il porto di Aigues Mortes,
si recava anche a Trebbiano per salutare la famiglia Sceptem, il cui
figlio era un suo carissimo amico e compagno di diaconato (questi
divenne poi cardinale di Genova, noto come Cardinal Sette, e a
Sampierdarena esiste una via a lui dedicata). Di questi viaggi del
Petrarca parla anche l’Abate Emanuelle Gerini, nelle Memorie, ove
si legge di “Guido Scetteme, Arcivescovo Illustre”:
«E siccome allora, cioè nel settembre 1343, eravi guerra in questa
provincia tra’ Pisani e Luchino Visconti, il Poeta fino a Lerici
pervenne, e trovate le strade chiuse dagli eserciti delle parti guerreggianti,
posesi in barca a costeggiare la spiaggia Lunense fino a Motrone, dove
misesi a terra e passò la notte negli accampamenti Pisani, indi seguì suo
cammino verso Napoli.»
La rotta per Aigues Mortes era assai frequentata e si ha notizia che
nel 1340 (epoca in cui Petrarca viaggiava) Massaro Simonello di San
Terenzo effettuava noli da Genova ad Acque Morte (vigeva allora
l’obbligo per le navi lericine di recarsi a Genova e iniziare da quel porto
il decorso del nolo).
Egli poté così cantare la «snella torre del Castello di Lerice», prima
che fosse reincamiciata per resistere ai tiri delle nuove armi da
fuoco (i passavolanti), e anche cantò l’estrema punta del promontorio,
che egli poté vedere dal mare navigando, sia nel poema Aphrica,
sia nel poema Itinerario Siriaco:
«… quindi il Capo di Corvo, a cui intorno l’onda irata del mar
gonfiasi e freme e ai sassi rotta irta spumeggia…» (Aphrica);
«… non distante da qui, presso gli estremi confini genovesi, vedrai
il famoso scoglio del Corvo, che prese il nome dal colore, e poco
lungi le foci della Macra, che divide i Liguri Marittimi dai
Toscani… » (Itinerario Siriaco).
Ma soprattutto egli cantò la bontà dell’olio della riviera, sia nel
poema Aphrica, sia nelle Familiarum Rerum:
«Allungando il cammino a’ naviganti surge in porto di Venere,
già cara isoletta alla diva, a lei di fronte si alza il fortissimo Erice,
che i nomi delle sicule spiagge anco ritiene. Su questi colli, che di
ricchi olivi inghirlandata al sole ergon la fronte, talor Minerva
passeggiar fu vista, dimentica d’Atene, di sua fronda dal dolce
frutto ammaliata e vinta, quindi il Capo di Corvo…» (Aphrica);
«Ei vien recandoti un picciol vaso del più molle di tutti i liquori,
vo’ dire olio, che spontaneo e vergine, come dicono, stillò, senza
che mano il premesse, dalle olive de’ nostri colli, ove direi che
lasciata Atene, fosse venuta ad abitare la trovatrice dell’olio
Minerva, se, già è tempo, ne’ miei libri dell’Africa a Porto Venere
e a Lerici sulla riviera di Genova, non l’avessi collocata» (Familiarum
Rerum Libri, Liber Tertius, 22, 6-1).
Sulla bontà dell’olio della costa non vi sono dubbi, così come sulla
serena pace che l’oliveto infonde. Un testimone d’eccezione sulla
bellezza dell’oliveto di Tellaro è lo scrittore inglese David Herbert
Lawrence, che così scrive in una lettera a D. W. Hopkin:
«Dear Will,
… You have no idea how beautiful olives are, so grey, so delicately
sad, reminding one constantly of the New Testament. I am always
expecting when I go to Tellaro for the letters, to meet Jesus
gossiping with his disciples as he goes along above the sea, under
the grey, light olives…» (da Fiascherino, 18 dicembre 1913).
Circa la fama dell’olio, il Canonico lericino Gio-Batta Gonetta, acuto
osservatore e narratore, nel Saggio istorico descrittivo… scrive:
«Un adagio antico dicea “olio di Barbazzano, formaggio di Compiano
e vino delle Cinque Terre”. Il timo di cui si pasce l’armento dà pure
caci squisiti a Serra, Telaro, e più ancora a Montemarcello; e olii
preziosi dà il comune di Lerici, sebbene non giungano alla bontà di
quelli di Barbazzano, or di Telaro, pari forse a qualunque altro in
preziosità, qualora a dovere venissero fatti… Il Petrarca, al vedere gli oliveti del Comune e Mandamento di Lerici, nel suo poema Africa, non dubitò asserire che Minerva…» (1867).
Oltre alla fama locale, l’olio di questi territori era noto nel Medioevo
e commerciato anche nel resto del Mediterraneo. Se ne ha
documentazione in un atto del 1222, riportato dal Poggi, per cui
viene rubato un carico di olio pisano destinato ai Saraceni (Pisa aveva
il dominio sulla costa fino a Lerici). In cambio i Pisani ricevevano “zucaro”
di Babilonia (lo zucchero, già noto in India all’epoca dell’imperatore
Dario nel 510 a.C., viene citato anche dal generale di Alessandro Nearco
nel 327 a.C. e viene prodotto in grande scala in Sicilia, nel 900 d.C.).
Arrivo di “zucaro” da Babilonia è citato nel 1294, mentre “zucaro”
proveniente da Cipro è citato nel 1301.
La Verrucola di Barbazzano
Mentre Portesone è un villaggio pastorale aperto, Barbazzano è un
borgo fortificato, una Verrucola, così come si legge in una pergamena
del Codice Pelavicino del 22 giugno 1274, indizione 2, ove viene
esplicitato l’obbligo gravante sugli “Homines de Verucula” di portare
il vescovo a Roma, Genova e Pisa, con le proprie navi, «in propria
galea, sive saiectea vel aliis lignis.» Non solo essi «debent ferre
dominum episcopum», ma anche devono trasportate tutti coloro che
devono seguire il vescovo in missione, per esercitare le proprie mansioni.
Barbazano era un borgo medioevale dotato di proprio sorgitore (un
porto dotato di sorgente d’acqua dolce per il rifornimento delle
navi).
La sorgente è ancora parzialmente visibile nella spiaggia di
Fiascherino, per tradizione riservata agli uomini della Serra (se ne
scorgono i filetti fluidi nell’acqua di mare, perché l’acqua dolce è
freddissima), mentre il porto non è ben comprensibile nella sua
dimensione iniziale, perché il promontorio, che lo difendeva dalla
traversia di libeccio, è franato in mare, si ritiene nel XVI sec., e
oggi ne rimangono affioranti gli scogli detti “gli Stellini”.
Barbazzano era quindi un borgo agricolo, ne fanno fede le numerose
pergamene del Codice Pelavicino, ma anche un borgo di marinai, se
il vescovo-conte di Lunigiana li utilizzava come proprio “vettore
ufficiale”. Si deve ritenere che i marinai di Barbazzano esercitassero
anche la pirateria, perché esiste un documento, citato dal Poggi, in
cui uomini di Barbazzano assaltarono presso il Corvo una saettia del
fiorentino Lapo di Buoncompagno, derubandolo di merci e denari
(1264). Questo atto di pirateria era rivolto ai Fiorentini, in quanto
nemici dei Pisani, essendo gli uomini di Barbazzano sudditi di Pisa.
Alla battaglia della Meloria marinai lericini combattevano sulle
navi genovesi, mentre i marinai di Barbazzano combattevano su
navi pisane (1284). Decaduta la potenza pisana, gli uomini di
Barbazano effettueranno sottomissione completa a Genova nel
1286.
Le rovine esistenti ci possono far capire la struttura di questo
borgo fortificato; è ancora visibile e ben conservata la torre occidentale,
con la porta per immettersi nella mulattiera diretta a Lerici.
Appaiono ancora visibili i cardini in pietra. La torre portava nella
parte superiore lo sbalzo per la collocazione del tavolato, atto a
fornire l’impiantito per il posto di guardia, che aveva il compito
di controllare le mura, ma anche il mare antistante. Salendo sulla
torre il mare è infatti perfettamente visibile. Oltre alla torre
sono visibili i resti della chiesa, utilizzata fino alla Seconda Guerra
Mondiale come stalla per le pecore. Mentre le rovine dell’intero
borgo sono di proprietà di privati, l’area della chiesa appartiene
all’Istituto per il Sostentamento del Clero. Della chiesa sono ancora
visibili la finestra a croce della facciata e le due finestre arciere, con
ngolo di tiro verso la via proveniente da levante. È assai difficile poter capire
se fu costruita
inizialmente come chiesa fortificata, oppure se sia un riutilizzo di una
struttura militare di epoche precedenti. All’interno del borgo si notano
ancora i resti di un edificio in muratura, che dovrebbe essere la residenza
del vescovo di Lunigiana, quando questi vi si trasferiva con la curia
per la festa della Madonna di Mezzo Agosto. Va notata la grande
importanza di questo periodo dell’anno per i popoli marittimi, in quanto
con feria di Mezzo Agosto si chiudeva la navigazione per il timore
delle tempeste di cambio di stagione.
Carlo V, che nel 1541 volle tentare la spedizione contro Algeri, dopo
tale data pagò caramente questa sua avventatezza e si salvò soltanto
perché si era imbarcato su una grande nave, il galeone “Real”, costruito
appositamente anche per l’imbarco della corte. Eppure lo stesso papa
Paolo III, che lo aveva ricevuto a Lucca, lo aveva ammonito a non
tentare l’impresa.
Oltre che per assistere alla chiusura della navigazione, il vescovo di
Luni si intratteneva a Barbazano per fare i bagni con l’acqua di mare.
Non che scendesse in spiaggia, bensì si faceva portare acqua di mare
che rendeva ulteriormente curativa con erbe aromatiche. Pare
oltremodo interessante prendere atto delle prestazioni che gli erano
dovute dagli uomini del borgo. Per esempio, ogni sera dovevano
essergli portate le foglie secche per riempire il saccone su cui
riposare. Non si sa se ciò sia dovuto al solo fatto di volere dormire
sul soffice, oppure se egli conoscesse quanto noi oggi conosciamo
dagli esperimenti fatti con la camera di Kirlian, per cui le foglie
continuano a emettere energia vitale per più giorni, fino a che
questa scompare definitivamente. È per questo che i formaggi vengono
adagiati, secondo la tradizione, sulle foglie appena tolte dalla pianta.
L’impasto verrà sterilizzato perfettamente da questa energia. Ciò
viene controllato oggi mediante analisi di laboratorio, ed il risultato
è strabiliante.
Secondo Mons. Wando Cabano, Barbazano appartenne
ai vescovi di Luni dall’anno 880, mentre secondo il diploma di Ottone
II del 981, fu sempre unito ad Ameglia. Nel porto di Barbazano
confluirono i signori di Lunigiana in partenza per la VI Crociata e,
secondo il Maestro Ennio Callegari, fu proprio uno di questi crociati che
al ritorno per adempiere a un voto, fece costruire sul
litorale una cappella dedicata a Santa Maria Assunta.
Gioacchino Volpe, nel libro Toscana medioevale, presenta i
redditi del vescovo di Luni fra Ameglia e Barbazzano, e fra questi
figurano il vino, il frumento, i pascoli, le biade, i pedaggi alla foce
della Magra, i pedaggi per passare il fiume, i pesci, le castagne e
i servizi per andare a Roma.
Nel Codice Pelavicino sono indicate in tre diversi atti le tabelle
per le gabelle vescovili, che erano situate a Caprigliola (S. Stefano
di Magra, gabella di terra) ad Avenza (Carrara) e alla Foce della
Magra, nel porto di Santo Maurizio (gabelle di mare).
Interessantissima è la serie merceologica delle merci che transitavano
nelle varie stazioni di gabella. Soprattutto sono interessanti le gabelle
per le navi e per le parti di navi della gabella del porto di Santo Maurizio.
Emerge da documenti pisani anche un’attività degli uomini di
Barbazano nel commercio della “vena di ferro”; così come dagli
Statuti di Pisa, che vanno dal XII al XIV sec., emerge che i
funzionari pisani (camerarii et notari) destinati ai distretti di
Ameglia, Barbazano e Montemarcello, oltre al salario, o feudo,
abbiano settanta lire in denaro pisano, non solo, ma abbiano anche
il letto, compreso di coperte, materassi e cuscini.
Le macine a remo del Caprione
Altro elemento importante nella struttura del borgo è il frantoio,
cioè il locale ove è conservata la base in pietra della macina, con
scanalatura a settore circolare. Si tratta di un tipo di macina
assai singolare, che per ora è stata rinvenuta soltanto nel golfo della
Spezia. Le prime ricerche su queste macine sono da ascrivere allo
studioso Gino Cabano. I resti di tre di queste macine si trovano nel
Caprione, mentre un’altra è nell’isola del Tino. Questo tipo di struttura
è stato presentato al Convegno Internazionale “The Road of Food
habits in the Mediterranean Area”, tenutosi a Napoli alla Mostra
d’Oltremare nel maggio 1997. Nessuno dei presenti aveva visto un simile
costrutto, soltanto una docente di Cipro aveva mostrato l’immagine di
due donne che macinavano il cereale nella stessa posizione e con gli
stessi movimenti delle “macine a remo” del Caprione, senza però
mostrare la struttura sottostante. Questo tipo di macina è stato definito
“macina a remo” per il movimento alternato con cui funziona. Lo studio
di questo tipo di macina è stato pubblicato nella “Rivista di Antropologia”,
Supplemento al volume 76 del 1998, col titolo “Oriental inedited
mill-stones in the promontory of Caprione (Gulf of la Spezia)”.
Va notato che a Barbazzano è stato possibile ritrovare la forcella di
fulcro, separata in due parti perfettamente combacianti, nonché una
parte della ruota. Le altre basi di macina sono state rinvenute a
Narbostro (spezzata parzialmente) e a San Lorenzo. Proprio grazie a
quest’ultima macina, spostata dal suo luogo iniziale accanto alla chiesa di San
Lorenzo (le decime si pagavano alla chiesa e solo gli storpi e i malati
potevano macinare senza pagarle), è stato possibile scoprire il
Quadrilite con la farfalla dorata. A San Lorenzo è stata anche scoperta
la ruota di macina, un tempo visibile nella corte di una casa prossima
alla chiesa. La macina sita nell’isola del Tino è visibile durante le visite
permesse dalla Marina Militare in occasione della festa di San Venerio.
Un particolare che si nota soltanto nella base di macina di Barbazano è
costituito da quattro asole scavate nel settore circolare per bloccare
la ruota con due assi traversi (fermi di sicurezza per la prevenzione
degli infortuni).
Il curatore della sezione archeologica del Congresso
di Napoli, nel prendere atto del contenuto del poster, espresse in verità
la convenzione che un simile tipico di macina fosse molto più antico e
chiese perché lo avessi presentato nel settore “medioevo”. Risposi che,
mancando di altri elementi di datazione, avevo utilizzato come elemento
guida il fatto che le macine fossero collocate in due borghi medioevali
del promontorio del Caprione, cioè Barbazano e San Lorenzo, e che la
terza macina fosse collocata nell’isola del Tino, ove vi era il Monastero
i cui atti, portati all’Archivio di Stato di Torino dagli occupanti piemontesi,
datavano a partire dal 1000. Può essere però considerato probabile
che la tecnologia adottata venga dalla Protostoria, dalla civiltà che si sviluppò
attorno ai laghi della Svizzera (Neuchatel)(vedi “Dizionario di Preistoria” di
André Leroi-Gourhan).
Da Barbazano a Tellaro
È indubbio che il titolo della chiesa di San Giorgio sia passato da
Barbazano a Tellaro, ma va sfatata la credenza che Tellaro non
esistesse ancora mentre Barbazano stava scomparendo. Per seguire la
vita di una comunità medioevale è molto importante seguire le vicende
della sua chiesa. Barbazano faceva parte del piviere di Ameglia. Il Pievano
aveva sotto di sé tutte le chiese e cappelle e inviava i suoi preti a officiare
la Santa Messa la domenica e le feste, ma battesimi, matrimoni, funerali
e le stesse sepolture avvenivano nella chiesa matrice.
Barbazano, già nel 981, faceva parte dei domini del vescovo-conte di Lunigiana,
e nel 1116 l’imperatore Federico II concesse a Pisa la giurisdizione sulla costa
orientale del golfo, per cui Barbazano rimase sotto Pisa fino alla sconfitta
della Meloria, avvenuta il 6 agosto 1284. Con l’atto di sottomissione del 15
settembre 1286, il Sindaco di Barbazano di impegnò a pagare a Genova
grosse somme per risarcimento del danno arrecato, nonché fornire in pegno
molti beni, impegnarsi a non fare più offese ingiurie e danni al
Comune di Genova, a non accogliere fuoriusciti genovesi e a consegnare
debitori, omicidi e traditori. Barbazano rimase sotto la giurisdizione genovese
fino al 1300, quando le guerre intestine in quella città ne fanno disperdere il
potere. Barbazano, con Ameglia, cadde quindi in potere del Comune di Lucca,
desiderosa di avere un accesso al mare. Tale rimarrà fino al 1312, quando il
Vicario dell’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo, chiamato a portare la
pace fra le due fazioni genovesi, continuerà la sua opera di pacificazione
anche nella riviera.
Così Barbazano e Ameglia, nel 1313, passarono sotto il dominio di Bernabò
Doria. Alla morte improvvisa dell’imperatore Enrico VII, avvenuta a
Buonconvento (Siena) tutto si riaccese, ma Barbazano, Ameglia e Portesone
restarono sotto la signoria dei Doria. Nel 1320 apparve la figura potente di
Castruccio Castracani, signore di Lucca, il quale, avendo avuto delega
dal vescovo Gherardino sul feudo comitale, divenne signore di Ameglia
e Barbazano. E fu sotto questo dominio che si registrò un fatto di notevole
importanza nella Podesteria di Ameglia. Gli uomini, o meglio i capi-famiglia,
si riunirono il 17 aprile 1328 nella cosiddetta “Piana di San Giorgio” per
tenere un parlamento all’aperto in cui discutere questioni di confini e di
proprietà in relazione alle onnipresenti pretese dei Sarzanesi. L’atto relativo
è riportato nel “Registrum Vetus” del Comune di Sarzana al N. 55 con la
titolazione “Congregatio generali parlamento comunis Amelie et Barbacani”:
«Nel nome del Signore, amen. Nell’anno della Natività 1328, indizione XI,
giorno 17 aprile. Radunato il parlamento generale del Comune di Ameglia
e di Barbazano su mandato di me notaro Iacopuccio del fu Giovanni Bonaparte
di Sarzana, vicario del signor giudice Tommasino del fu Parente di Sarzana,
podestà di Ameglia e di Barbazano e delle altre terre della podesteria per
l’illustre principe il signor Castruccio, per grazia di Dio capo di Lucca, per
voce del banditore, come è usanza, nel distretto di Ameglia e di Barbazano
nel luogo detto Zanego.»
Erano presenti 45 capi famiglia di Barbazano, 36 capi famiglia di Portesone,
35 di Ameglia, 29 di Monte Marcello, per un
totale di 148 persone. I convenuti elessero sindaci, attori, procuratori e
nunzi speciali Orso del fu Ottonello di Montemarcello e Berto del fu
Giacomino di Barbazzano, incaricati e delegati a discutere qualsiasi vertenza
e divergenza intorno ai confini della Podesteria e dei comuni limitrofi.
Nel 1328 morì Castruccio Castracani e il territorio ritornò sotto la
Signoria dei Doria. Nel 1346 Genova pretendeva di riavere dai Doria Ameglia,
Barbazano, Portesone, uomini, cose e diritti tutti. Così, quando scoppiò la
guerra di Chioggia contro Venezia (1378-1381), Barbazano dovette fornire 17
uomini per le galee, oltre a pagare un contributo.
Terminata la guerra di Chioggia, Genova piombò di nuovo nel caos interno.
I castelli si ribellarono e scelsero i signori cui affidarsi. Barbazzano passò così
sotto i Visconti di Milano.
Da tutto ciò si deduce che esisteva ancora la vivacità della vita in Barbazano.
Intanto a Genova ripresero le lotte interne, e così venne chiamato come
pacificatore Carlo VI re di Francia. Così Ameglia e Barbazano passarono sotto
il dominio francese. Nel 1409, però, Genova si ribellò ai Francesi, e così
Ameglia e Barbazano rientrarono sotto il dominio genovese.
Genova, nel 1421, venne sotto il dominio dei Visconti, e così la Podesteria
di Ameglia fu consegnata a Tommaso di Campofregoso, che la tenne in
possesso fino al 1430 con l’aiuto dei Fiorentini.
Una delle fazioni genovesi, non paga, chiamò in aiuto i Catalani, cioè gli
Aragonesi, che entrarono in guerra con Genova. Gli Aragonesi si impossessarono dei castelli di Lerici e di Porto Venere, e nel 1435 il re Alfonso di
Aragona giunse a Lerici, in attesa dell’arrivo della flotta che l’infante Don Pietro,
suo fratello, doveva condurgli dalla Sicilia.
I Genovesi attaccarono battaglia sul mare e il 5 agosto 1435 ottennero
una strabiliante vittoria presso l’Isola di Ponza, durante la quale furono fatti
prigionieri sia il re Alfonso d’Aragona, sia il re Giovanni di Navarra.
Memoria di questi fatti storici si trova riportata anche nella Gran
Enciclopedia Catalana alla voce “Lerici”:
«Ciutat de Ligúria (La Spezia), Itàlia (14.756 habitants el 1971). Situada
sobre una cala a l’est del golf de Gènova, tè indústria pesquera i conreus
d’oliveres. El 1426 el duc de Milà, Felip Maria Visconti, cedí aquest port
i el de Porto Venere a Alfonso IV de Catalugna-Aragó el qual, en
compensació, renuncià a les seves aspiracions a l’illa de Còrsega.
Després de la derrota de Ponça, però, el rei català hagué de retornar
aquestes bases marťimes.»
I due re furono consegnati a Filippo Maria Visconti, che li liberò,
contro ogni aspettativa dei Genovesi. In questa complessa trattativa
politico-militare avvenne una operazione commerciale che toccò da vicino
gli interessi lericini. I Genovesi concessero che le armi e le cose del re di
Aragona fossero portate a Milano, forse per la via di Pontremoli,
mediante uno speciale salvacondotto. Tramite lo stesso salvacondotto i
Lericini ottennero di poter commerciare sale, ma in quantità controllata,
come scrive il Poggi alla pagina 241 del volume II di Lerici e il suo
castello, evidentemente per non turbare gli equilibri degli esportatori
liguri, e cioè «ristretto solamente alle due navicole di Lorenzo de Rapallo
e di Cristoforo de Castello ed ai lembi, barche ed altri piccoli legni addetti
allo scaricamento di detto sale ed agli uomini in essi imbarcati, e valevole
per quattro mesi a cominciare dal 15 maggio [1436],» Il commercio del
sale era una delle più importati fonti di reddito.
Nel 1438 i Genovesi si allearono con Renato d’Angiò contro gli Aragonesi,
e la reazione del re di Aragona fu violenta. Con numerose navi essi, chiamati
in gergo locale “i Catalan”, compirono atti di pirateria lungo le due riviere
ed è probabile che, avendo attaccato Lerici il 9 marzo 1446, avessero anche
compiuto un attacco contro Barbazano, distruggendolo. Da qui l’antico
detto “i Moi Catalan i gi’an déstruto Barbazan”. È incomprensibile come
i Catalani siano assimilati ai Barbareschi (moi, per “Mori”), che nei secoli
precedenti affliggevano le coste, pirati seguaci dell’Islam che nulla avevano
in comune con la raffinata civiltà araba. In effetti nella cultura mediterranea
si usarono termini vari per denotare gli armati musulmani aggressori e
predatori. Solitamente si indicano come “Barbareschi” i pirati musulmani
provenienti dalla costa settentrionale dell’Africa (Barberia, da Berberia,
terra dei Berberi), “Saraceni” (siarkjin, sarazzin, forse da sarqi, “oriente,
orientale”) i pirati di origine araba in genere, che si vennero a
insediare nelle coste del Mediterraneo europeo, “Mori” i pirati comunque
di pelle scura, fra cui anche i pirati musulmani provenienti dalla enclave
moresca di Spagna, tenuta dagli Omaydi di Cordoba.
Secoli di scorrerie sulle coste con intenti predatori e anche con intenti
coloniali (si pensi all’occupazione stabile delle foci del Garigliano, alla
occupazione stabile della base di Frassineto, nel golfo di Saint Tropez,
con conseguente occupazione dei Passi Alpini, alla installazione di numerose
basi in Corsica, alla stessa occupazione di Luni nel 1015), avevano marcato
in maniera indelebile la memoria storica delle popolazioni rivierasche.
Per combattere i pirati e liberare la Corsica dalle basi di Mugiaihd (noto
fra i Cristiani come “Musetto”) intervenne nel 1016 anche il papa, che
fece fare una pace (temporanea) fra Genova e Pisa, in modo da poter unire
le loro forze navali contro i Musulmani, che avevano rapito san Maiolo,
abate di Cluny, mentre transitava per il Passo del Gran San Bernardo.
Per liberarlo fu necessario pagare mille libbre di argento. L’intervento papale
avvenne anche più tardi, nel 1132, tramite gli uffici di san Bernardo di
Chiaravalle per far interrompere i reciproci atti di pirateria fra le navi delle
due super-potenze marittime di allora, in quanto papa Innocenzo II aveva
bisogno delle loro forze unite per battere re Ruggero di Sicilia, che proteggeva
l’antipapa Anacleto.
Il pericolo musulmano entrò anche nei patti che regolavano i contratti civili.
Come riferisce il Volpe, «i coloni che coltivavano le terre della chiesa lucchese
o prendono da essa a livello mulini, si riservano di non pagare il fitto quando la
minaccia corsara si abbatta sul paese: anteposito si gens paganorum
casis et rebus ipsis seu predicto molino non incenderint et non
pegnoraverint. Trattasi di contratto con cui il Vescovo Gherardo allivella
ad un tale una casa e corte donnicata e mulino in loco et finibus Casale
Longo presso Cornino» (Toscana Medioevale, p. 8). Si noti come in tale
caso i pirati musulmani siano definiti, all’epoca, genericamente “pagani”.
Vero che nel 1372 vi fu una grande spedizione navale dei Genovesi, seguita
da un’altra internazionale, cui parteciparono anche gli Aragonesi, che
distrussero tutte le principali basi navali dei pirati mediterranei, ma questa
volta furono i “cristiani” Catalani che portarono la distruzione in
Barbazano, facendone iniziare lo spopolamento verso il nuovo insediamento
di Tellaro.
Un ulteriore evento che portò al declino di Barbazano fu
quasi certamente la spedizione punitiva delle soldataglie del Reatino,
Tommaso Moroni da Rieti, al servizio di Francesco Sforza. Questo
principe aveva assunto la Signoria di Genova nel 1464 (ancora una volta
le fazioni genovesi, anziché trovare un accordo, preferirono la dominazione
straniera) e aveva mandato truppe esterne nella Liguria Orientale per eliminare
ogni resistenza. Il Reatino fece distruggere tutti gli oliveti della costa e
ciò portò ulteriore danno all’antica Verruca, che probabilmente si spopolò
per una serie di cause concomitanti:
– la distruzione delle soldataglie attaccanti;
– il venir meno dell’interesse a ricostruire nello stesso luogo, per la
mancanza di approvvigionamento idrico;
– la concomitanza della nascita di un borgo vicino, costruito con
nuove tecniche che permettevano miglior vivibilità delle abitazioni
e, contemporaneamente, migliori accorgimenti difensivi (per meglio
capire ciò occorre notare che le case di Barbazzano dovevano
essere in parte costruite in legno).
Da più fonti si apprende che nel secolo XV vi fu un abbassamento degli
acquiferi, per cui molti paesi furono abbandonati per luoghi meglio dotati
di sorgenti. Nel 1486 si ha infatti notizia di un progetto per cui gli abitanti
di Ameglia, con una o più giornate di “angheria”, fecero un condotto per
«tirar l’acqua a beneficio delle possessioni di San Giorgio.» Questo condotto,
con parti in cotto incastrate a tulipano, è tuttora visibile lungo la mulattiera
che da Tellaro porta a Capo Acqua, e corre in basso lungo la muraglia,
inserito in un corpo continuo che appare come uno scalino.
In alcuni punti risulta spaccato per far passare le linee ENEL, e dalle
concrezioni saline appare l’avvenuto deflusso di acqua ricca di calcio.
Va notato che, mentre Barbazano andava in declino e il culto liturgico,
fondamentale per la vita della comunità medioevale, si spostava in
Tellaro, anche gli uomini di Montemarcello si costituivano in parrocchia
(1474). Volendo fare una retrospettiva storica della chiesa dell’antico
borgo di Barbazano, si ha una Bolla di papa Eugenio III che la nominò nel
1149 come dipendente della Pieve di Ameglia.
La “Cappella de Barbassano” figura come dipendente della “Plebes de
Amelia” nelle Decime “pro subsidio Rengni Cecilie” (1296-1297), assieme
al “Monasterium Sancte Crucis de Corbo” (Pistarino G., Le Pievi della…).
Nella successiva elencazione delle decime bonifaciane, la cappella è scritta
come “Cappella de Barbaçano”, e circa il Monastero del Corvo vi si legge:
«Monasterium Sancte Crucis de Corbo non solvit quia prior dicti monasterii
in dicto episcopatu fuit collector», cioè fu lo stesso Monaco del Corvo, di
nome Pace, a effettuare la raccolta delle decime, assieme a Canoro,
arcidiacono di Sarzana, e quindi il monastero non effettuò alcun versamento,
mentre la Pieve di Ameglia pagò una libbra e due denari pisani piccoli
(1298-1299). Diversamente la Pieve pagò venti soldi pisani, contro una libbra
e undici denari pisani piccoli pagati dal monastero nella successiva raccolta
del 1303 (il sistema monetario corrente era basato su libbra, soldo, denaro).
Circa la data in cui fu chiusa la chiesa di Barbazano, si ha la relazione
della visita di Monsignor Peruzzi del 1584, in cui si confermava che la
chiesa era in rovina e non era più officiata da quindici anni, cioè dal 1569,
per cui venne chiusa e interdetta.
Circa il problema della data in cui sorse Tellaro, occorre notare che la
prima citazione del toponimo si ha in atto del 9 marzo 1276 del Fondo
Abbazia del Tino, esistente presso l’Archivio di Stato di Torino (gli
occupanti piemontesi raccolsero e portarono nella loro capitale tutto
il Cartolario). In esso si legge che venne fatta concessione livellaria, da
parte dell’Abate e del Priore del Monastero di San Venerio del Tino, a
favore di Portesone del fu Pietro Sardo, di una terra denominata “ad
Telarum”. Si noti la trascrizione del toponimo con una sola “l” , mentre
in una lettera dei Protettori di San Giorgio del giorno 8 agosto 1486 si
legge dell’invio a Genova di uno “de lo Tellaro”.
La citazione di un terreno non significa ancora la costruzione di un borgo,
per cui occorre fare ulteriori ricerche. Il Gonetta, nel manoscritto inedito
“Storia di Lunigiana” presso la Biblioteca Mazzini della Spezia,
alla pagina 169 scrive: «… a Telaro stesso a poco a poco nato e cresciuto
a piedi d’un presidio genovese là sorto verso il 1300 si muniva pure di
torre con voltone intorno da cui con opportune feritoie difendersi dagli
assalti nemici.»
Secondo il Gonetta Tellaro ebbe quindi origine come luogo
fortificato contro gli assalti dal mare, e bene le fortificazioni dovettero
funzionare in tal senso, se si leggono le Croniche di Giovanni Sercambi,
storico lucchese, il quale scrive:
«CCVII – Come molti delle galee de re Luizi furono morti & in volta
ritornaro in Serchio.
Avendo il dicto re in focie di Serchio alquante galee per segurtà di sé et
dei Fiorentini, le dicte galee essendo in focie di Serchio all’entrata di ogosto
in MCCCCX e quine stando fine a di X agosto dicto anno, si partirono e
andaro a Telaro in nella Riviera di Genova, credendo quine acquistare. Et
perché quelli Genovesi che quine erano, sentendosi asaglire, vigorosamente
contestarono con quelle galee, e furono morti delle dicte galee homini
XLIII; et così, senza aquisto, le dicte galee tornaro in focie di Serchio
presso Pisa.»
Un’altra ipotesi circa la nascita di Tellaro è formulata da studiosi del luogo.
Essi sostengono che alcuni cavalieri di Lunigiana partirono da Barbazzano
all’epoca della Sesta Crociata e che fecero voto, qualora fossero tornati
sani e salvi, di costruire una cappella sul mare. Circa la partenza della
crociata guidata da re Luigi il Santo, si riporta quanto scritto dal Petronilli:
«A Portovenere sorse un cantiere per il raddobbo durante le contese
coi Pisani, cantiere che presto acquistò grande importanza, tanto che
al tempo della sesta crociata, promossa da Luigi IX, nel 1248, in esso
furono costruiti ed armati, in tempo brevissimo, un numero non piccolo
di legni.»
Questa attività di costruzioni navali non poté avvenire in Genova, perché vi mancava il legname. Oltre ad aver spogliato di
alberi la Sardegna, Genova aveva anche spogliato di alberi tutte le
colline circostanti (da ciò oggi le disastrose alluvioni che periodicamente
danneggiano la città).
Da questa cappella sarebbe poi iniziata l’urbanizzazione del sito.
In vero, sotto la chiesa di Tellaro, si scorge un resto di muro che mostra
un piccolo tratto di volta, sporgente verso il vuoto, che appare troncato.
Ciò potrebbe essere l’esito dell’azione di fenditura del terreno causata
da una delle master-fault che corrono lungo la costa. Potrebbe
essere questa parte di muro ciò che resta della cappella di cui si narra?
Il castello di Ameglia
Il Volpe, in Toscana Medioevale, scrive che «sorgono i primi castelli
dove sono i possessi più copiosi e più si addensano gli uomini della Chiesa
o dove più urge la minaccia saracena o normanna.» Ameglia è uno di
questi luoghi, e il primo documento che parla del suo castello fu il privilegio
di Ottone I del 19 maggio 963, ove venne citato anche il castello di Trebbiano,
che confermava al vescovo Adalberto il possesso di tutte le corti, pievi, beni
e servi d’ambo i sessi, che furono conferiti con atti autentici dei suoi
predecessori. Il castello fu sempre del vescovo-conte, e si ritrova confermato
in un diploma dell’imperatore Enrico VI del 1121: «castrum de Amelia,
cum curte, districtu, portu venationibus…» (Codice Pelavicino, atto N. 22).
Il prof. Silvestri, già sindaco di Ameglia, fa una bella e completa descrizione
della vita castellana, nel libro Ameglia nella storia della Lunigiana:
«Il castello di Ameglia si presenta come residenza di un feudatario (nel
caso un Vescovo-conte) il quale più o meno saltuariamente vi risiede
come in una piccola corte; qui amministra la giustizia, promulga le leggi,
impone tasse e tributi, organizza feste e cacce, banchetti, forse anche piccole
giostre di cavalieri o spettacoli di commedianti, allietati dalle canzoni dei
trovatori e dei giullari. Accettando la definizione degli studiosi del diritto,
il castello va pensato come un centro con delle mura che devono “currere
circa castrum” per cui l’unico ingresso possibile è la porta, ed il più grave
dei reati, violare le mura. Attorno al castello il borgo, piccolo centro artigiano
dove si esercitano i vari mestieri per tutti i bisogni della contea-feudo.
Nelle campagne i villani o servi della gleba, legati cioè alla terra su cui
nascono e muoiono… In caso di pericolo tutti gli abitanti del feudo trovano
nel castello protezione e rifugio (la “tuitio”); qui si trovano anche le case
d’abitazione addossate alle mura (casae cum solario).
A questa protezione corrisponde un certo numero di servizi personali
gratuiti “onera, angarie, corvatae” (le corvée) per la costruzione di opere
difensive, per manutenzione o riattamento del castello e delle strade. Altri
servizi sono corrisposti a compeno di fitti, come la guardia sulle mura, il
servizio in cucina, assieme a molti altri… Il signore esercitava il diritto di
maritaggio (consenso alle nozze), quello di molitura, il diritto di erbatico
sui pascoli, di pedaggio sul fiume, di ripatica per gli approdi» (pp.120-121).
Un particolare diritto del vescovo-conte era quello di avere il pesce
più grosso di ogni pescata, e in particolare di avere lo storione. Nel
Codice Pelavicino, nell’atto del 22 aprile 1201, indizione 4, si legge:
«Storioni, ombrine, cervie o altro pesce grosso, tutte le volte che sarà
pescato, si deve dare e portare alla curia vescovile. Di ogni pescato, uno
sia dato alla curia, cioè il più grosso, come è di consuetudine; dei più
piccoli, si deve dare e destinare alla curia quello che il pescatore avrà di
meglio, come è consuetudine…»
Le acque del fiume Magra sono adatte alla presenza dello storione, che vi
è stato pescato fino alla seconda metà dell’Ottocento. È molto interessante
notare come anche l’Abate della notissima abbazia di St. Michel avesse la
fruizione dello stesso diritto: «… si homines Abbatis piscem qui dicitur
Sturjon capiunt, totus erit S. Michaelis. Crassuspiscis, si captus fuerit,
ala una et medietas caude erit Monachis.»
Questa annotazione si legge nel
dizionario del latino medioevale del Du Fresne. E bene facevano il
vescovo-conte e l’abate a introdurre nella loro tavola un pesce così ricco
di grassi polinsaturi omega-3, adatti quindi a combattere la ipercolesterolemia!
Il castello di Ameglia è posto sul culmine del colle ed è munito di torre che
fu costruita dal vescovo-conte Antonio da Camilla. A differenza degli altri
castelli, la torre è cilindrica. Il complesso del castello ha una struttura irregolare,
dovuta all’adattamento della costruzione alla irregolarità del terreno.
All’interno del castello, come scriveva nel 1856 il Canonico lericino Gonetta,
che fu parroco di Ameglia, vi era «una piccola chiesa che era detta Cappella
Episcopale perché un tempo pertinenza dei vescovi lunensi…» All’interno
del castello vi è un bel cortile di circa metri 50 x 30.
Sono molti gli atti dei vescovi sottoscritti in “castro Amelie” o in “curia
episcopi Amelia”. Fra questi uno importantissimo per la nascita del
Monastero del Corvo.
Il monastero del Corvo
Nel Codice Pelavicino, negli atti N. 541 e 542, si parla del “monaco de Corvo”:
– atto N. 541 del 12 novembre 1186, ind. 5
«… multa religiosarum personarum paupertatem laborat, quemdam
locum solitarium qui dicitur Corvus, cum ecclesia eiusdem loci sancte
Crucis, religioni, sicut creditur, aptum a bone memorie Pipino
predecessore nostro institutum…»;
– atto N. 542 del 1176, indizione 9
«… Tibi Monacho de Corvo ego Pipinus Dei g.lun. ep. offertor et donator
tuus propterea dixi… tibi supr. Monacho cedo, trado, dono, offero, idest
XXXII iuvas terre continuas ad Macenam in loco qui dicitur Casale, ad
hedificandum tibi monasterium in honorem Dei et vivifice sancte Crucis
et beatissimi Nichodemi confessoris… Actum Amelie in Purificationis S.
Marie in curia feliciter.»
Il vescovo Pipino donò il terreno per costruire il monastero e la relativa
chiesa, dedicata a Santa Croce e a San Nicodemo, ora
parzialmente distrutta (perché costruita proprio sulla faglia). Vi fu collocato
il crocifisso denominato Volto Santo, come quello, certamente più famoso,
collocato nel 742 in San Frediano e poi in San Martino di Lucca.
Papa Niccolò V, sarzanese, preso atto della rovina della chiesa, pur accuratamente
costruita con utilizzo di mattoni, fece costruire attorno all’abside una
cappella ottogonale, in cui ancora si può vedere la bellissima reliquia,
venuta dall’Oriente. In molti antichi documenti si accenna allo stesso
promontorio del Corvo mediante l’indicazione di St. Cruce, Sancte Crucis,
ecc., e in effetti il monastero è proprio sulla punta del promontorio.
(1525) si leggono i seguenti porti:
Nel Portulano delle regioni costiere del Mediterraneo, di Jacobo Turris
– la-vensa (il porto di Avenza, di cui alla gabella vescovile);
– macra (cioè il porto fluviale di Ameglia o di San Maurizio,
cioè in sinistra idraulica della Magra );
– crocie (chiaro richiamo alla presenza di Santa Croce del
Corvo, ma evidentemente riferito al porto della
Ferrara, cioè in destra idraulica della Macra);
– la speci (da intendersi la Spezia);
– p. verine (da intendersi come Porto Venere).
Nel Portulano di Gioan Hieronimo Sosviche delle coste d’Europa (prima
metà del secolo XVII) si leggono i seguenti porti:
– masa (Massa, cioè Avenza);
– la megia (Ameglia);
– magra (sembra quindi vi sia la suddivisione fra i porti delle due
sponde del fiume);
– corvo (sarebbe troppo dover annoverare tre porti alla foce della
Magra, per cui si deve intendere Barbazano);
– erexe (cioè Lerici);
– specie (cioè la Spezia);
– p. venere (cioè Porto Venere).
Immagini tratte da questi due portolani, giacenti presso l’Archivio di
Stato di Pisa, Fondo Uppezinghi, sono state pubblicate nel quaderno
del territorio a titolo Sul toponimo Lerici.
Secondo alcuni studiosi il monastero era tenuto dai Benedettini, e il
Monaco del Corvo volle edificare in quel luogo una chiesa dedicata a
Santa Croce, proprio per ricordare l’arrivo delle reliquie dall’Oriente, e
non solo i crocifissi, fra cui quello di Nicodemo, bensì la reliquia del
Preziosissimo Sangue, venerata dapprima a Luni e poi trasferita a Sarzana,
non senza tumulti di popolo, scatenati dagli uomini di Carrara e di
Castelnuovo Magra contro il vescovo Marzucco. Dell’antica chiesa si
legge ancora una lapide con la scritta “Resurgam”, citata anche dal
Vinzoni che ne ha riprodotta la pianta, indicando nella didascalia che l’Abbazia apparteneva ai Monaci Neri di Sant’Agostino.
Attualmente il complesso è inserito nella tenuta del castello Fabricotti,
acquisito dai Frati Carmelitani. L’importanza del Monastero del Corvo
non è soltanto legata alla storia religiosa medioevale attraverso la
tradizione delle reliquie provenienti dal mare, ma anche alla storia
della lingua italiana. Esiste infatti una epistola inviata al signore di Pisa,
Uguccione della Faggiola, con cui un certo frate Ilario narrava di come fosse
approdato al Monastero un personaggio, Dante Alighieri, il quale aveva
voluto tradurre in linguaggio volgare concetti molti elevati e avesse chiesto
di inviare il suo libretto (La Commedia) al suddetto signore. Gli studiosi
si sono divisi sulla autenticità di questa Epistola di Frate Ilario. Sembra
tuttavia verisimile che Dante sia stato al Corvo, perché citò un particolare
che è a pochi noto. Egli citò il luogo di Turbia nel verso famoso «Tra
Lerici e Turbia…» ed è risaputo che il poeta non fu mai alla Turbie
(Provenza).
Nella nostra toponomastica esiste proprio sopra gli Spiaggioni
della Marossa il luogo detto “en Turbia” (luogo ove secondo la tradizione
si vanno a raccogliere i funghi rossi ‘dar sangue’) e gli Spiaggioni della
Marossa sono proprio oltre il Corvo, e presentano un’orrida paleofrana,
la cui visione potrebbe aver ispirato al poeta il prosieguo del verso «… la
più diserta, la più rotta ruina» (Purgatorio, Canto III, vv. 49-51). Ci si
potrà chiedere come abbia potuto il divino poeta vedere quella paleofrana.
È molto semplice, perché la “strada romana” che proviene da Montemarcello,
diretta a Lerici, passa proprio sopra, adiacente allo strapiombo. A dare
spessore probabilistico a questa ipotesi sta anche la toponomastica storica,
che, se non presenta il toponimo direttamente, presenta un toponimo con
lo stesso valore semantico, cioè “Ventulam”, citato nel Codice Pelavicino
nell’atto del 22 giugno 1274, indizione 2: «Masium de Rivo… et deferunt
herbas et olera et vadunt Ventulam et Maritimam et ad mare…», cioè
gli uomini della tenuta del Rivo devono muoversi nel territorio e andare
a cercare per il vescovo erbe e aromi, cioè devono spostarsi sia al monte
sia al mare. Ed è noto a tutti gli anziani che, oltre ai funghi, proprio sul
crinale si rinvengono molte erbe aromatiche ed essenze: corbezzolo
(Arbutus unedo), lentisco (Pistacia lentiscus), terebinto (Pistacia
terebinthus), mirto (Myrtus communis), il rovo (Rubus spinosus),
l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius), la mentuccia (Calamintha
nepeta). Non va sottovalutata l’importanza di questa raccolta, perché non
essendovi ancora le spezie, o essendo costosissime, si utilizzavano
lentisco, terebinto e mirto per aromatizzare e conservare le carni. Anzi, si
ritiene che il termine mortadella sia stato usato per
primo in Lunigiana, o meglio sia documentato come tale nella forma
“mortoriola”, cioè “insaccato aromatizzato e conservato con il mirto”, di cui
si ha la citazione nell’atto del 1181 del Codice Pelavicino. Si noti ancora
come nel sito ove si colloca il toponimo Turbia sia stato recentemente
impiantato l’Orto Botanico gestito dal Parco Naturale della Magra e di
Monte Marcello.
La torre Groppina, o Gorpina, e lo studio del toponimo
Salendo dalla piazzetta di Tellaro verso Montemarcello si arriva a una
terrazza di pietra sovrastante l’insenatura detta del Piastrone, e a
destra si scorge un piccolo sentiero che si addentra in orizzontale
fra i pini di Aleppo, nella costa ripida e franosa. Percorrendone un
breve tratto si arriva sotto la torre di avvistamento nota come
“Torre Groppina” o “Torre Gorpina”. Si tratta di una torre da
avvistamento che consentiva agli abitanti di Tellaro di essere avvisati
con un certo anticipo per porsi in salvo dagli attacchi dei pirati.
È interessante notare come in Tellaro esistano alcuni elementi di
storicizzazione di questa realtà che ha colpito e plasmato le
popolazioni rivierasche. La più interessante è la leggenda del polpo
che ha suonato la campana, dando così l’allarme ai paesani perché
facessero fuggire le donne e i bambini al monte, mentre gli uomini
avrebbero preparato la terribile arma di difesa, l’olio bollente!
Di questa pratica, terribile per chi la riceveva, e tanto più temibile
quanto più uno era difeso da cotte e armature, non facili a levarsi,
è rimasto il proverbio popolare “Telaro non voglio che brucia con
l’olio”. Si noti ancora come nella toponomastica di Tellaro si
riscontrino due toponimi significativi:
– a spiaza da Vitoia (la Spiaggia della Vittoria) ove sarebbero stati
inseguiti e vinti gli assalitori;
– a lama der moo (la Lama del Moro).
Per capire quest’ultimo toponimo occorre specificare che, nel tratto di
costa fra Maramozza e Fiascherino, esiste la Lama, cioè un tratto di
costa scosceso e soggetto a frane. In antico vi era, sotto la Serra,
un convento di monache, ora scomparso per frane. Il terreno infatti è
soggetto a infiltrazioni d’acqua e questa è la radice toponomastica da
comprendere, radice che si ritrova in Lunigiana nelle Lame di Aulla.
Se si guarda la lingua italiana, il termine “lama” sta per “elemento orizzontale”,
in particolare per acquitrino, acqua piatta, stagnante. In Lunigiana è
rimasta però la radice germanica klamm, che sta per “luogo ove vi sono
infiltrazioni di acqua che fanno franare il terreno”. Questa tipologia di
infiltrazioni contraddistingue appunto i toponimi in “lama” del Caprione,
e nei toponimi Chiama, Chiamici, Calamazza di Lunigiana.
Nel dialetto di Tellaro la torre è anche indicata come “Guardiea” (guardiola).
Ancora nel 1490 esisteva l’ordine di continuare a fare come
in passato le guardie ai corsari dalle alture di Punta Corvo, e ancora
nel 1660 tre trireme turche attaccarono Tellaro. Ciò è registrato nei libri
della parrocchia.
Il toponimo è controverso, perché presenta una possibile inversione
fra la “o” e la “r”, cioè Gorpina-Groppina. Entrambi hanno una
giustificazione etimologica. Gorpina è evidentemente il luogo delle
volpi (in dialetto gorpe), e le volpi qui, nella grande paleofrana, trovano
un enorme numero di tane. Groppina è invece un toponimo di
derivazione gotica, da krup-kruppa, “groppo”, cioè luogo
con presenza di grandi massi. Assai simile è la spiegazione fornita
dall’Abate Du Fresne, signore di Cange, che cita «“Groppa”, vox italica
simile al gallicismo “Croupe”, luogo arido». Gioacchino Volpe, in
Toscana Medioevale, cita un atto del 950 in cui Adalberto vescovo
conferma una concessione nel Monte de Gropina. Nel Codice Pelavicino
nell’atto del 950, evidentemente lo stesso citato dal Volpe, si legge:
«in loco ubi dicitur Monte de Gruppina» e questa è la dicitura più conforme
alla radice gotica.
Entrambi i nostri toponimi sono possibili, ma in termini probabilistici
sembra più credibile la radice gotica. Il ragionamento è il seguente:
– se si analizza il processo per cui un nome è rimasto, anche per millenni,
a indicare un preciso luogo, ciò significa che esiste un elemento che
lo ha caratterizzato (una res, come scrive il Beretta, ad esempio un
fiume, un monte) (Beretta C., 2003);
– esistono i toponimi faunistici, ad esempio a Lerici si rinviene “Arpaa”,
il luogo di rapaci (harpalios, in greco), “Coà”, il luogo ove gli uccelli
marini depongono le uova e fanno la cova, “Cucù”, il luogo
ove per primo si sente il cuculo, “Tana der farcheto”, caverna marina
nel lato orientale della Punta di Maramozza ove avrebbe potuto sostare
il falco pescatore (migratore), “Legua”, il luogo delle lepri (in lericino
legua), “Farconaa”, il luogo dei falchi, “Pernisaa”, il luogo delle pernici,
Canale de Plozii (toponimo storico del Codice Pelavicino legato alla
presenza dei rigogoli, uccelli che fanno il nido pensile, che va ricercato
nel Canale di Remaggio o in suo affluente, la “Spiazèla di muscoli” in
Tellaro, ove si potevano raccogliere i mitili (Mytilus galloprovincialis),
la “Tana del serpente”, caverna franata nella costa del Corvo, “Tassonaa”,
il luogo del tasso, “Uselea”, il luogo degli uccelli, “Volpara” o anche
“Gorpara”, la tenuta attorno al Casino di caccia del “Fodo”, ove si faceva
la caccia alla volpe, tenuta smembrata per la costruzione della strada%