LERICI E IL BORGO PISANO
Il toponimo
Il toponimo Lerici deriva dalla radice celtica eruk, che significa l’albero del leccio, albero indigeno su tutta la costa della Lunigiana Storica, tanto che se ne ha un altro in quel di Levanto. Fino a qualche decennio fa si riteneva che il toponimo derivasse dalla voce latina ilex, che significa anch’essa l’albero del leccio, ma è tarda, essendo ben noto che i nomi degli alberi furono dati dai Celti. Basti osservare che l’astrologia celtica è basata sugli alberi. Erice di Sicilia ed Eriacci dell’Istria provengono dalla stessa radice celtica, così come Pieve a Elci di Toscana (il Portu a Yrici del Sercambi). Mentre fino a qualche decennio fa non si arrivava a capire come il toponimo si fosse affermato in Sicilia, e lo si faceva derivare dal culto della Venere Ericina, lo si è dovuto accettare dopo che nel 1990 gli studi di Cavalli Sforza avevano dimostrato l’identità genetica fra le popolazioni liguri e le popolazioni della Sicilia Occidentale. Eppure già nel VI secolo a.C. Ellanico di Mitilene aveva scritto che tre generazioni prima della guerra di Troia i Liguri si erano insediati nella Sicilia Occidentale. Ma gli storici erano increduli. Ancora nel “Dizionario di Toponomastica” UTET (1990) certe ipotesi sono considerate come “fantasie”. Una bella controprova antropologica la si è avuto nel riscontrare che una delle tre torte sacrificali degli Umbri, o meglio dei Paleo-umbri (le popolazioni provenienti dal Mar Nero insediatesi prima in Lunigiana), cioè la torta mefla, si ritrova ancora nella Sicilia Occidentale col nome di muffolone, termine che contiene appunto le consonanti della torta mefa o mefla delle Tavole di Gubbio. Questa torta ha la forma di una losanga con il buco centrale (simbologia della Dea Madre Gravida), viene ricoperta di fichi tostati e nel foro viene inserito un cuore di palma. Appartiene alla tradizione natalizia, cioè alla celebrazione della festività astronomica del solstizio d’inverno.
La baia di Lerici, un sorgitore.
Nel vecchio manuale Hoepli di “Attrezzatura Navale e Manovra” del prof. Imperato, stampato nel 1901, alla voce “sorgitore”, si legge: “luogo opportuno per ancorare”. Nella navigazione preistorica e protostorica il sorgitore doveva però essere anche dotato di una sorgente di acqua fresca, perché l’acqua non si poteva mantenere potabile nei contenitori di legno. Lerici era quindi un spiaggia idonea per far appoggiare la prora della nave sulla sabbia per la notte, fare scorta di acqua, quindi ripartire. Fino a qualche decennio fa si riteneva che Lerici fosse rimasto inabitato fino alla Romanità. Il ritrovamento – da parte del geometra Francesco Ginocchio - della statua-stele di Via Cavour, dialettalmente Capo Santo, perché riferito al cimitero monumentale di Pisa in cui i marinai pisani scaricavano la terra della Terra Santa imbarcata come zavorra, ha fatto cambiare questa credenza. Nella relazione pubblicata su “Studi Etruschi” (1998) si legge che “Una entità ligure, culturalmente definita, nel corso del VI sec. doveva sopravvivere soltanto nel limitato cantone del bacino idrografico del Magra. Una dinamica di questo tipo può spiegare il fenomeno della produzione delle statue stele di età arcaica – come ha proposto Lucia Gervasini al termine del suo contributo – come estremo tentativo di autodefinizione etnico culturale, in chiave esplicitamente antitetica alla prepotente spinta alla omogeneizzazione culturale di segno etrusco. Dopo l’età arcaica quasi nessuna traccia doveva restare di queste più antiche presenze liguri lungo il litorale, se Scilace poteva dire che da Antion (Antibes?) la costa era tutta etrusca fino a Roma”. Si noti però che, con le conoscenze della navigazione di altura, con la conoscenza delle formule delle Tavole Nautiche dell’istituto Idrografico Militare, con l’utilizzo della carte nautiche, sia italiane sia inglesi, si arriva a capire che Antion non è Antibes (Provenza) bensì Anzo di Framura! La rilettura dello Scylax diviene quindi perfetta. Ancora una volta gli storici antichi avevano ragione! Lerici era quindi un luogo abitato già prima dell’arrivo dei Romani. Nelle evolute carte francesi del periodo napoleonico si legge ancora il termine aiguade, cioè il luogo ove atterrare con le scialuppe per attingere acqua. Simile informazione non si ha nelle carte inglesi, ma dagli appunti personali degli ammiragli inglesi si apprende che, se nel Mediterraneo dovesse verificarsi una siccità triennale, occorre approdare nella baia di Lerici, ove sgorga acqua perennemente. Il toponimo dialettale Botri, derivante dalla voce greca bothros, pozzo, si trova infatti nel tratto di costa fra gli attuali toponimi di Lido e Venere Azurra. I Romani utilizzarono anch’essi le qualità nautiche della baia di Lerici, come sicuro rimessaggio invernale delle navi. Da questo utilizzo deriverebbe il toponimo “Ericinasque Stationes”, citato dal Falconi nell’opera “Descrizioni del Golfo della Spezia” (1874), nonché la citazione del Landinelli della lapide che sarebbe stata in Roma, in Via Giulia, nel palazzo del Cardinale di Montepulciano. In questa lapide si narra che i Consoli C. Menenio e P. Sestio avrebbero dato concessione agli Etruschi di Luni di tenere nell’inverno le navi nei porti e nelle “stazioni ericine” (cioè nel Portus Lunae). Per chi non vuole credere a queste notizie storiche, non deve però sfuggire che nella Tabula Sexta della “Geographia” di Tolomeo viene citato il toponimo “Ericis Golfos” e ne viene data altresì, per la prima volta al mondo, la Latitudine e la Longitudine! Si vedano le “Fontes Ligurum”. I moderni studiosi di storia romana affermano chiaramente che, per organizzare la Seconda Guerra Punica, circa duecentocinquanta navi, con i relativi equipaggi e con i soldati al seguito, furono fatte confluire nel Portus Lunae, cioè nel Golfo della Spezia. Fra questi vi sarebbe stato anche Plinio il Vecchio. Il ritrovamento della cisterna a tre arcate sul crinale di Senzano, il ritrovamento del “guado del cane” in località Senato, il fatto che la chiesa di Barbazano abbia du finestre arciere e sia orientata in modo difforme dalla prime chiese cristiane, il fatto che il campanile della cappella di San Lorenzo al Caprione abbia una finestra arciera come una normale torre di guardia di valico, mostrano l’interesse per i Romani di organizzare i trasferimenti di uomini e merci dalla città di Luni al Portus Lunae (Golfo della Spezia). Fino a quando la potenza dell’impero romano rimase integra, è da ritenersi che la baia di Lerici e il Portus Lunae siano stati utilizzati come approdi al servizio della grande città di Luni, terminale del trasporto dei cereali per la sussitenza delle legioni nella Gallia Cisalpina e Transalpina. Ciò potrebbe aver luogo fino al IV secolo d.C.. Il viaggio di ritorno verso la Gallia del poeta latino Claudio Rutilio Damaziano (De reditu suo) spiega bene la fine di un’epoca storica straordinaria, ad opera della nuova ideologia cristiana del “porgi l’altra guancia”.
Lerici e il primo Borgo Poggio.
Dopo il quarto secolo si ebbe il crollo di Luni, sia per un grosso incendio, sia per il flusso di inerti che colmavano il porto (la linea di costa avanzava di un metro l’anno). La nuova grande organizzazione religioso amministrativa, la Chiesa di Roma, dovette far convergere i propri emissari sul porto naturale di Porto Venere, come nuovo terminale della rotta Capo Miseno (Napoli) – Alalia (Corsica) – Portus Lunae, sempre valida per la navigazione di altura determinata dai venti di Scirocco e di Libeccio. I Monaci del Tino, provenienti da Tyrus (Libano) erano i guardiani di detta rotta marittima e coloro che dovevano tenere aperte le vie terrestri verso la Gallia Cisalpina e Transalpina. Ed è per questo che essi hanno amministrato per secoli l’isola di Corsica. I vascelli corsari musulmani (non arabi) usarono la base di Luni per almeno due secoli. Ancora nell’anno 890 invasori musulmani occuparono la fortezza di Frassineto, da cui partivano per le loro scorrerie sulla costa. Soltanto nel 973 Guglielmo di Provenza riuscì a liberare la fortezza, rendendo più vivibili gli insediamenti costieri di Provenza e Liguria. Non si creda però che si ebbe la pace per i nostri insediamenti costieri, perché il borgo fortificato di Telaro fu attaccato ancora nel 1660. Non si hanno molte notizie di questo tribolato periodo storico, e si deve attendere la cacciata dei Musulmani dalla Corsica e dalla Sardegna per poter avere un relativo periodo di pace. Così ne scrive il Canonico Giobatta Gonetta nel suo manoscritto inedito “Storia di Lunigiana”alle pagine 399-400: “Borgo Poggio, che dovea aver principio all’epoca della cacciata di Saraceni dalla Corsica o meglio di Sardegna dopo il 1020 o 30 circa, epoca in cui gli abitanti della costa marina di Liguria doveano tenersi sicuri più che non erano prima”. La data corretta è il 1016. Il Gonetta ci presenta quindi un primo borgo costruito in alto, per meglio difendersi dai cosidetti Saraceni. Lo storico Ditmaro (VII, 31) narra che nel 1016 i Saraceni invasero Luni: “In Langobardia Saraceni navigio venientes Lunam civitatem fugato pastore invadunt, et cum potentia ac securitas fines illius regionis inhabitant”. Questo primo borgo fortificato fu distrutto dai Genovesi a seguito di un arbitrato di pace concluso con i Malaspina il giorno 14 marzo 1174. Fra le clausole di questo arbitrato figura la consegna ai Consoli del Comune di Genova dei Castelli di Lerici, Figarolo e Petra Tecta (Monte Rocchetta) per raderli al suolo. Ciò dovette avvenire veramente, se negli Annali Genovesi si legge:
1208 – e tenutosi dai Consoli consiglio, Ottobono con molti savi della città al Porto di Venere adunaronsi in Ilice col nobil cittadino dei Parmensi Matteo di Corrigia, potestà dei Pisani. E ascoltato il sermone del predetto abate... ;
1209 – Girardo abate del Tilieto e Gargano abate di San Galgano, nella potestà dei quali fu messa da definire la lite e la discordia ch’era infra Genovesi e Pisani, convennero a Ilice con i predetti consoli del Comune...;
1217 – nel secondo giorno di giugno esso cardinale e il Podestà con molti nobili della città nostra si mise in cammino per andare al porto di Venere a trattare e compiere (ciò sia detto felicemente) pace e e concordia infra esse città; e convennero gli uni e gli altri a Ilice.
Ciò avveniva su richiesta di Papa Onorio III per far si che Pisani e Genovesi unissero le loro forze per portare la guerra santa in Palestina.
Secondo il Poggi, un primo incontro di pace fra Genova e Pisa, sarebbe avvenuto in Lerici già nel 1202. La baia di Lerici era quindi un porto franco, agevole da raggiungersi, usato sia dai Pisani sia dai Lucchesi per commerciare con Genova e con Aigues-Mortes, porto costruito per agevolare le partenze dei Crociati, ora interrato. I primi approdi della costa orientale del golfo della Spezia erano infatti Bocca di Magra e Barbazano. Giulio Cordero dei Conti di San Quintino, nel libro “Cenni al commercio dei Lucchesi coi Genovesi nei secoli XII e XIII” ci informa però che “nel luogo di Lerici vicino dove si dice San Giorgio, presso il porto di quel luogo” esisteva una chiesetta, che, evidentemente, costituiva la sede ideale per parlamentare (In loce Lerice propre ubi dicitur Sancto Georgio, iuxta portum ipsius loci).
Lerici, porto franco nel Medioevo.
L’operazione, raccomandata dal Papa a Genova e Pisa di smettere di combattersi fra loro per unire le forze e liberare Corsica e Sardegna dai Musulmani, fu indubbiamente una fatto storico importante per far crescere successivamente il potere delle due repubbliche marinare. Nel 1152 Genova contattò i feudatari di Vezzano per l’accesso al seno di Porto Venere per farne una base navale. Quaranta anni dopo contattò i feudatari di Arcola e Vezzano per estendere il suo dominio nel seno di Lerici. Se i Genovesi avessero successivamente edificato sui monti lericini qualche castello, metà delle opere edificate sarebbero però state di loro proprietà, eccetto il “domingione”, cioè il grande maschio del castello. Successivamente Federico I imperatore infeudò il vescovo di Luni Pietro del “montem de Caprione, locum qui dicitur Particella, et montem Ilicis, cum portu et piscatione sua, curaturam quoque animalium qui per terram et districtum suum transeunt” (atto del Codice Pelavicino del 1185, luglio 29, indizione 3). Questo documento assume una importanza storica importante, perché informa sulle attività economiche del territorio, governate dal vescovo-conte di Lunigiana e non dai Genovesi. Lerici, essendo privo di opere di fortificazione, divenne quindi una zona franca per il commercio del sale, delle stoffe e delle seterie. Nel 1159 si ha infatti una convenzione fra Genova e Lucca per le consegne del sale a soldi 15 per ogni moggio di sale di Porto Venere (misura standard di quel periodo storico). Che Lerici fosse zona franca lo si deduce dal fatto che il Cardinale Mosca, su mandato di Papa Celestino III, fu mandato a Lerici per trattare le discordie fra Pisani e Genovesi circa il castello di Bonifacio. Nel 1191 si ha un documento dell’imperatore Arrigo VI per imporre al vescovo di Luni di salvare i Pisani venutisi a trovare in difficoltà nel territorio della diocesi. Un simile documento fa capire che avvenissero scontri per interessi commerciali dovuti a una espansione pisana nel territorio della diocesi, evidentemente contrastata da operatori locali. L’esplosione che determinò una importante svolta storica nelle diatribe commerciali che avvenivano in Lunigiana avvenne però sul mare. Nel 1241 avvenne una battaglia nelle acque dell’isola del Giglio in cui le flotte pisana e imperiale sconfissero gravemente la flotta genovese, impegnata a portare numerosi cardinali a Roma per un concilio. Pisa, forte di questa vittoria sul mare, prima impensabile, fece un colpo di mano e occupò Lerici, per trasformarlo in una base navale avanzata contro Genova. Per riaffermare la sua politica militare Pisa investì tutte le sue disponibilità per creare un borgo murato con mura e torri e per costruire un poderoso castello sul Poggio di Lerici, ove doveva già esistere una torre da guerra. Nasceva così una nuova comunità di spiccato valore militare e commerciale nel golfo della Spezia. Questo nuovo insediamento sarà ricordato come “borgo pisano”. Anche se il dominio pisano durò soltanto sedici anni, le tracce rimasero indelebili. Si veda il titolo della cappella castrense, dedicata a una santa pisana, Anastasia, martirizzata sotto Diocleziano nel 287 d.C. nell’isola di Palmarola, antistante l’isola d’Elba. Anastasia è tuttora la santa protettrice di Piombino. Al Poggio è rimasto il Vico dei Pisani, da cui si può ammirare la potenza del castello e nel contempo osservare le trasformaziione che lo stesso subì con l’avvento della polvere da sparo (1340). Ancora nel dopoguerra si potevano vedere, penetrate a metà nelle mura, le palle di pietra sparate dal Poggio. Si può ancora scorgere la vecchia porta del castello, collegata con un ponte in legno, munito di “domuncola”, per cui l’entrata poteva avvenire da parte di una sola persona. Per resistere meglio alla nuova potenza assunta dalla armi da fuoco, i Genovesi trasferiranno l’entrata del castello nel lato mare, impossibile da colpire anche dalle armi imbarcate sulle navi, perché queste non erano allora dotate di un sufficiente alzo. Attorno alla nuova potenza assunta da Pisa si creerà però una lega di città interessate a sconfiggerla in campo terrestre. Nel 1252 Firenze vinse Pisa nella battaglia di Pontedera e vinse contemporaneamente i Senesi nella battaglia di Montalcino. Nel 1254 vi fu una lodo in Firenze in cui si condannavano i Pisani a restituire ai Genovesi il Castello e il Poggio di Lerici. Nel 1256 vi fu un atto in cui verranno riconosciute agli uomini di Lerici, se consentiranno di cedere il castello ai Genovesi, le stesse franchigie riconosciute da Genova agli uomini di Porto Venere. Una nuova sconfitta dei Pisani avvenne però nella battaglia di Ponte al Serchio (1256). In quello stesso anno Genova, di fronte al diniego pisano, organizzò una flotta di ottanta galere per attaccare il borgo murato di Lerici, peraltro ancora in fase di completamento. Con la sconfitta dei difensori e con la distruzione delle mura Lerici divenne così un possedimento genovese, che venne di nuovo dotato di fortificazioni. La successiva battaglia della Meloria (1284) segnerà la definitiva scomparsa della repubblica marinara di Pisa. Strategicamente parlando, le più grandi modifiche alle strutture militari di Lerici furono la costruzione del barbacane (il forte sul mare di cui si vede la grande finestra cannoniera dietro e attorno al Bar Costa, ora Bar Razzini) e la costruzione del rivellino, cioè il forte stellato a cinque punte che esisteva all’altezza del Vico dei Pisani. Dalle scritture contabili genovesi si apprende che nel 1483 vennero acquistate alcune casette vicino al castello per distruggerle e creare un’area sufficiente per la realizzazione del rivellino, mentre nel 1497 si acquistano alla Spezia, ove si trovano a buon mercato, i beccatelli per il completamento del rivellino. Il disegno della struttura del rivellino è conservato all’Archivio di Stato di Genova, settore Confinium, n° 133, perché questo foglio a lapis fu sequestrato ad una spia piemontese nel 1756. La struttura del rivellino appare in un acquerello di Domenico Cambiaso, databile fra il 1840 e il 1862. Il Bardellini, nel suo libro su Lerici, scrive che le ultime parti del rivellino scomparvero alla fine del 1800.
Il toponimo Lerici deriva dalla radice celtica eruk, che significa l’albero del leccio, albero indigeno su tutta la costa della Lunigiana Storica, tanto che se ne ha un altro in quel di Levanto. Fino a qualche decennio fa si riteneva che il toponimo derivasse dalla voce latina ilex, che significa anch’essa l’albero del leccio, ma è tarda, essendo ben noto che i nomi degli alberi furono dati dai Celti. Basti osservare che l’astrologia celtica è basata sugli alberi. Erice di Sicilia ed Eriacci dell’Istria provengono dalla stessa radice celtica, così come Pieve a Elci di Toscana (il Portu a Yrici del Sercambi). Mentre fino a qualche decennio fa non si arrivava a capire come il toponimo si fosse affermato in Sicilia, e lo si faceva derivare dal culto della Venere Ericina, lo si è dovuto accettare dopo che nel 1990 gli studi di Cavalli Sforza avevano dimostrato l’identità genetica fra le popolazioni liguri e le popolazioni della Sicilia Occidentale. Eppure già nel VI secolo a.C. Ellanico di Mitilene aveva scritto che tre generazioni prima della guerra di Troia i Liguri si erano insediati nella Sicilia Occidentale. Ma gli storici erano increduli. Ancora nel “Dizionario di Toponomastica” UTET (1990) certe ipotesi sono considerate come “fantasie”. Una bella controprova antropologica la si è avuto nel riscontrare che una delle tre torte sacrificali degli Umbri, o meglio dei Paleo-umbri (le popolazioni provenienti dal Mar Nero insediatesi prima in Lunigiana), cioè la torta mefla, si ritrova ancora nella Sicilia Occidentale col nome di muffolone, termine che contiene appunto le consonanti della torta mefa o mefla delle Tavole di Gubbio. Questa torta ha la forma di una losanga con il buco centrale (simbologia della Dea Madre Gravida), viene ricoperta di fichi tostati e nel foro viene inserito un cuore di palma. Appartiene alla tradizione natalizia, cioè alla celebrazione della festività astronomica del solstizio d’inverno.
La baia di Lerici, un sorgitore.
Nel vecchio manuale Hoepli di “Attrezzatura Navale e Manovra” del prof. Imperato, stampato nel 1901, alla voce “sorgitore”, si legge: “luogo opportuno per ancorare”. Nella navigazione preistorica e protostorica il sorgitore doveva però essere anche dotato di una sorgente di acqua fresca, perché l’acqua non si poteva mantenere potabile nei contenitori di legno. Lerici era quindi un spiaggia idonea per far appoggiare la prora della nave sulla sabbia per la notte, fare scorta di acqua, quindi ripartire. Fino a qualche decennio fa si riteneva che Lerici fosse rimasto inabitato fino alla Romanità. Il ritrovamento – da parte del geometra Francesco Ginocchio - della statua-stele di Via Cavour, dialettalmente Capo Santo, perché riferito al cimitero monumentale di Pisa in cui i marinai pisani scaricavano la terra della Terra Santa imbarcata come zavorra, ha fatto cambiare questa credenza. Nella relazione pubblicata su “Studi Etruschi” (1998) si legge che “Una entità ligure, culturalmente definita, nel corso del VI sec. doveva sopravvivere soltanto nel limitato cantone del bacino idrografico del Magra. Una dinamica di questo tipo può spiegare il fenomeno della produzione delle statue stele di età arcaica – come ha proposto Lucia Gervasini al termine del suo contributo – come estremo tentativo di autodefinizione etnico culturale, in chiave esplicitamente antitetica alla prepotente spinta alla omogeneizzazione culturale di segno etrusco. Dopo l’età arcaica quasi nessuna traccia doveva restare di queste più antiche presenze liguri lungo il litorale, se Scilace poteva dire che da Antion (Antibes?) la costa era tutta etrusca fino a Roma”. Si noti però che, con le conoscenze della navigazione di altura, con la conoscenza delle formule delle Tavole Nautiche dell’istituto Idrografico Militare, con l’utilizzo della carte nautiche, sia italiane sia inglesi, si arriva a capire che Antion non è Antibes (Provenza) bensì Anzo di Framura! La rilettura dello Scylax diviene quindi perfetta. Ancora una volta gli storici antichi avevano ragione! Lerici era quindi un luogo abitato già prima dell’arrivo dei Romani. Nelle evolute carte francesi del periodo napoleonico si legge ancora il termine aiguade, cioè il luogo ove atterrare con le scialuppe per attingere acqua. Simile informazione non si ha nelle carte inglesi, ma dagli appunti personali degli ammiragli inglesi si apprende che, se nel Mediterraneo dovesse verificarsi una siccità triennale, occorre approdare nella baia di Lerici, ove sgorga acqua perennemente. Il toponimo dialettale Botri, derivante dalla voce greca bothros, pozzo, si trova infatti nel tratto di costa fra gli attuali toponimi di Lido e Venere Azurra. I Romani utilizzarono anch’essi le qualità nautiche della baia di Lerici, come sicuro rimessaggio invernale delle navi. Da questo utilizzo deriverebbe il toponimo “Ericinasque Stationes”, citato dal Falconi nell’opera “Descrizioni del Golfo della Spezia” (1874), nonché la citazione del Landinelli della lapide che sarebbe stata in Roma, in Via Giulia, nel palazzo del Cardinale di Montepulciano. In questa lapide si narra che i Consoli C. Menenio e P. Sestio avrebbero dato concessione agli Etruschi di Luni di tenere nell’inverno le navi nei porti e nelle “stazioni ericine” (cioè nel Portus Lunae). Per chi non vuole credere a queste notizie storiche, non deve però sfuggire che nella Tabula Sexta della “Geographia” di Tolomeo viene citato il toponimo “Ericis Golfos” e ne viene data altresì, per la prima volta al mondo, la Latitudine e la Longitudine! Si vedano le “Fontes Ligurum”. I moderni studiosi di storia romana affermano chiaramente che, per organizzare la Seconda Guerra Punica, circa duecentocinquanta navi, con i relativi equipaggi e con i soldati al seguito, furono fatte confluire nel Portus Lunae, cioè nel Golfo della Spezia. Fra questi vi sarebbe stato anche Plinio il Vecchio. Il ritrovamento della cisterna a tre arcate sul crinale di Senzano, il ritrovamento del “guado del cane” in località Senato, il fatto che la chiesa di Barbazano abbia du finestre arciere e sia orientata in modo difforme dalla prime chiese cristiane, il fatto che il campanile della cappella di San Lorenzo al Caprione abbia una finestra arciera come una normale torre di guardia di valico, mostrano l’interesse per i Romani di organizzare i trasferimenti di uomini e merci dalla città di Luni al Portus Lunae (Golfo della Spezia). Fino a quando la potenza dell’impero romano rimase integra, è da ritenersi che la baia di Lerici e il Portus Lunae siano stati utilizzati come approdi al servizio della grande città di Luni, terminale del trasporto dei cereali per la sussitenza delle legioni nella Gallia Cisalpina e Transalpina. Ciò potrebbe aver luogo fino al IV secolo d.C.. Il viaggio di ritorno verso la Gallia del poeta latino Claudio Rutilio Damaziano (De reditu suo) spiega bene la fine di un’epoca storica straordinaria, ad opera della nuova ideologia cristiana del “porgi l’altra guancia”.
Lerici e il primo Borgo Poggio.
Dopo il quarto secolo si ebbe il crollo di Luni, sia per un grosso incendio, sia per il flusso di inerti che colmavano il porto (la linea di costa avanzava di un metro l’anno). La nuova grande organizzazione religioso amministrativa, la Chiesa di Roma, dovette far convergere i propri emissari sul porto naturale di Porto Venere, come nuovo terminale della rotta Capo Miseno (Napoli) – Alalia (Corsica) – Portus Lunae, sempre valida per la navigazione di altura determinata dai venti di Scirocco e di Libeccio. I Monaci del Tino, provenienti da Tyrus (Libano) erano i guardiani di detta rotta marittima e coloro che dovevano tenere aperte le vie terrestri verso la Gallia Cisalpina e Transalpina. Ed è per questo che essi hanno amministrato per secoli l’isola di Corsica. I vascelli corsari musulmani (non arabi) usarono la base di Luni per almeno due secoli. Ancora nell’anno 890 invasori musulmani occuparono la fortezza di Frassineto, da cui partivano per le loro scorrerie sulla costa. Soltanto nel 973 Guglielmo di Provenza riuscì a liberare la fortezza, rendendo più vivibili gli insediamenti costieri di Provenza e Liguria. Non si creda però che si ebbe la pace per i nostri insediamenti costieri, perché il borgo fortificato di Telaro fu attaccato ancora nel 1660. Non si hanno molte notizie di questo tribolato periodo storico, e si deve attendere la cacciata dei Musulmani dalla Corsica e dalla Sardegna per poter avere un relativo periodo di pace. Così ne scrive il Canonico Giobatta Gonetta nel suo manoscritto inedito “Storia di Lunigiana”alle pagine 399-400: “Borgo Poggio, che dovea aver principio all’epoca della cacciata di Saraceni dalla Corsica o meglio di Sardegna dopo il 1020 o 30 circa, epoca in cui gli abitanti della costa marina di Liguria doveano tenersi sicuri più che non erano prima”. La data corretta è il 1016. Il Gonetta ci presenta quindi un primo borgo costruito in alto, per meglio difendersi dai cosidetti Saraceni. Lo storico Ditmaro (VII, 31) narra che nel 1016 i Saraceni invasero Luni: “In Langobardia Saraceni navigio venientes Lunam civitatem fugato pastore invadunt, et cum potentia ac securitas fines illius regionis inhabitant”. Questo primo borgo fortificato fu distrutto dai Genovesi a seguito di un arbitrato di pace concluso con i Malaspina il giorno 14 marzo 1174. Fra le clausole di questo arbitrato figura la consegna ai Consoli del Comune di Genova dei Castelli di Lerici, Figarolo e Petra Tecta (Monte Rocchetta) per raderli al suolo. Ciò dovette avvenire veramente, se negli Annali Genovesi si legge:
1208 – e tenutosi dai Consoli consiglio, Ottobono con molti savi della città al Porto di Venere adunaronsi in Ilice col nobil cittadino dei Parmensi Matteo di Corrigia, potestà dei Pisani. E ascoltato il sermone del predetto abate... ;
1209 – Girardo abate del Tilieto e Gargano abate di San Galgano, nella potestà dei quali fu messa da definire la lite e la discordia ch’era infra Genovesi e Pisani, convennero a Ilice con i predetti consoli del Comune...;
1217 – nel secondo giorno di giugno esso cardinale e il Podestà con molti nobili della città nostra si mise in cammino per andare al porto di Venere a trattare e compiere (ciò sia detto felicemente) pace e e concordia infra esse città; e convennero gli uni e gli altri a Ilice.
Ciò avveniva su richiesta di Papa Onorio III per far si che Pisani e Genovesi unissero le loro forze per portare la guerra santa in Palestina.
Secondo il Poggi, un primo incontro di pace fra Genova e Pisa, sarebbe avvenuto in Lerici già nel 1202. La baia di Lerici era quindi un porto franco, agevole da raggiungersi, usato sia dai Pisani sia dai Lucchesi per commerciare con Genova e con Aigues-Mortes, porto costruito per agevolare le partenze dei Crociati, ora interrato. I primi approdi della costa orientale del golfo della Spezia erano infatti Bocca di Magra e Barbazano. Giulio Cordero dei Conti di San Quintino, nel libro “Cenni al commercio dei Lucchesi coi Genovesi nei secoli XII e XIII” ci informa però che “nel luogo di Lerici vicino dove si dice San Giorgio, presso il porto di quel luogo” esisteva una chiesetta, che, evidentemente, costituiva la sede ideale per parlamentare (In loce Lerice propre ubi dicitur Sancto Georgio, iuxta portum ipsius loci).
Lerici, porto franco nel Medioevo.
L’operazione, raccomandata dal Papa a Genova e Pisa di smettere di combattersi fra loro per unire le forze e liberare Corsica e Sardegna dai Musulmani, fu indubbiamente una fatto storico importante per far crescere successivamente il potere delle due repubbliche marinare. Nel 1152 Genova contattò i feudatari di Vezzano per l’accesso al seno di Porto Venere per farne una base navale. Quaranta anni dopo contattò i feudatari di Arcola e Vezzano per estendere il suo dominio nel seno di Lerici. Se i Genovesi avessero successivamente edificato sui monti lericini qualche castello, metà delle opere edificate sarebbero però state di loro proprietà, eccetto il “domingione”, cioè il grande maschio del castello. Successivamente Federico I imperatore infeudò il vescovo di Luni Pietro del “montem de Caprione, locum qui dicitur Particella, et montem Ilicis, cum portu et piscatione sua, curaturam quoque animalium qui per terram et districtum suum transeunt” (atto del Codice Pelavicino del 1185, luglio 29, indizione 3). Questo documento assume una importanza storica importante, perché informa sulle attività economiche del territorio, governate dal vescovo-conte di Lunigiana e non dai Genovesi. Lerici, essendo privo di opere di fortificazione, divenne quindi una zona franca per il commercio del sale, delle stoffe e delle seterie. Nel 1159 si ha infatti una convenzione fra Genova e Lucca per le consegne del sale a soldi 15 per ogni moggio di sale di Porto Venere (misura standard di quel periodo storico). Che Lerici fosse zona franca lo si deduce dal fatto che il Cardinale Mosca, su mandato di Papa Celestino III, fu mandato a Lerici per trattare le discordie fra Pisani e Genovesi circa il castello di Bonifacio. Nel 1191 si ha un documento dell’imperatore Arrigo VI per imporre al vescovo di Luni di salvare i Pisani venutisi a trovare in difficoltà nel territorio della diocesi. Un simile documento fa capire che avvenissero scontri per interessi commerciali dovuti a una espansione pisana nel territorio della diocesi, evidentemente contrastata da operatori locali. L’esplosione che determinò una importante svolta storica nelle diatribe commerciali che avvenivano in Lunigiana avvenne però sul mare. Nel 1241 avvenne una battaglia nelle acque dell’isola del Giglio in cui le flotte pisana e imperiale sconfissero gravemente la flotta genovese, impegnata a portare numerosi cardinali a Roma per un concilio. Pisa, forte di questa vittoria sul mare, prima impensabile, fece un colpo di mano e occupò Lerici, per trasformarlo in una base navale avanzata contro Genova. Per riaffermare la sua politica militare Pisa investì tutte le sue disponibilità per creare un borgo murato con mura e torri e per costruire un poderoso castello sul Poggio di Lerici, ove doveva già esistere una torre da guerra. Nasceva così una nuova comunità di spiccato valore militare e commerciale nel golfo della Spezia. Questo nuovo insediamento sarà ricordato come “borgo pisano”. Anche se il dominio pisano durò soltanto sedici anni, le tracce rimasero indelebili. Si veda il titolo della cappella castrense, dedicata a una santa pisana, Anastasia, martirizzata sotto Diocleziano nel 287 d.C. nell’isola di Palmarola, antistante l’isola d’Elba. Anastasia è tuttora la santa protettrice di Piombino. Al Poggio è rimasto il Vico dei Pisani, da cui si può ammirare la potenza del castello e nel contempo osservare le trasformaziione che lo stesso subì con l’avvento della polvere da sparo (1340). Ancora nel dopoguerra si potevano vedere, penetrate a metà nelle mura, le palle di pietra sparate dal Poggio. Si può ancora scorgere la vecchia porta del castello, collegata con un ponte in legno, munito di “domuncola”, per cui l’entrata poteva avvenire da parte di una sola persona. Per resistere meglio alla nuova potenza assunta dalla armi da fuoco, i Genovesi trasferiranno l’entrata del castello nel lato mare, impossibile da colpire anche dalle armi imbarcate sulle navi, perché queste non erano allora dotate di un sufficiente alzo. Attorno alla nuova potenza assunta da Pisa si creerà però una lega di città interessate a sconfiggerla in campo terrestre. Nel 1252 Firenze vinse Pisa nella battaglia di Pontedera e vinse contemporaneamente i Senesi nella battaglia di Montalcino. Nel 1254 vi fu una lodo in Firenze in cui si condannavano i Pisani a restituire ai Genovesi il Castello e il Poggio di Lerici. Nel 1256 vi fu un atto in cui verranno riconosciute agli uomini di Lerici, se consentiranno di cedere il castello ai Genovesi, le stesse franchigie riconosciute da Genova agli uomini di Porto Venere. Una nuova sconfitta dei Pisani avvenne però nella battaglia di Ponte al Serchio (1256). In quello stesso anno Genova, di fronte al diniego pisano, organizzò una flotta di ottanta galere per attaccare il borgo murato di Lerici, peraltro ancora in fase di completamento. Con la sconfitta dei difensori e con la distruzione delle mura Lerici divenne così un possedimento genovese, che venne di nuovo dotato di fortificazioni. La successiva battaglia della Meloria (1284) segnerà la definitiva scomparsa della repubblica marinara di Pisa. Strategicamente parlando, le più grandi modifiche alle strutture militari di Lerici furono la costruzione del barbacane (il forte sul mare di cui si vede la grande finestra cannoniera dietro e attorno al Bar Costa, ora Bar Razzini) e la costruzione del rivellino, cioè il forte stellato a cinque punte che esisteva all’altezza del Vico dei Pisani. Dalle scritture contabili genovesi si apprende che nel 1483 vennero acquistate alcune casette vicino al castello per distruggerle e creare un’area sufficiente per la realizzazione del rivellino, mentre nel 1497 si acquistano alla Spezia, ove si trovano a buon mercato, i beccatelli per il completamento del rivellino. Il disegno della struttura del rivellino è conservato all’Archivio di Stato di Genova, settore Confinium, n° 133, perché questo foglio a lapis fu sequestrato ad una spia piemontese nel 1756. La struttura del rivellino appare in un acquerello di Domenico Cambiaso, databile fra il 1840 e il 1862. Il Bardellini, nel suo libro su Lerici, scrive che le ultime parti del rivellino scomparvero alla fine del 1800.