Sul nome Caprione.
Il Caprione è l’estremo promontorio orientale della Liguria, che figura anche nella Tabula Sexta della Cosmographia di Tolomeo. Dialettalmente si presenta anche come Carpion, avendo subito il rotacismo, e lo si può leggere nel “Vocabolario del dialetto lericino” di Colombo Bongiovanni. Nella cartografia comunale viene riportato anche come Via del Carpione. Nessuno finora aveva tentato di coglierne a fondo l’etimologia, anche perché, nella forma rotata, veniva a confondersi con il termine della cucina fredda medioevale derivante dal modo di cucinare il “carpione”, cioè la Salmo trutta carpio, pesce di lago. Nei dizionari moderni il termine “carpione” viene collegato sia al nome del pesce sia al modo di cucinare detto pesce, cioè prima friggendolo e poi mettendolo sotto una salamoia di aceto caldo, aromatizzato con cipolle, aglio e droghe varie. Questo metodo di preparazione viene esteso anche alle verdure, talché nel dialetto lericino si trova la ricetta degli “articiochi en carpion”. La ricetta è riportata nel libro “La cucina del golfo nella tradizione mediterranea”, edito nel 1993 dall’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione di Lerici, intitolato al partigiano “Pino Casini”, medaglia d’oro al valor militare partigiano. Alla pagina 72 si legge: “ricetta raccolta a Lerici, ingredienti: carciofi, aglio, prezzemolo, alloro, sale, aceto, cipolla. Si fanno cuocere lentamente i pezzi di carciofo in una rosolatura di olio, aglio, e prezzemolo. Si fa poi una marinata calda con cipolla, alloro, poca acqua, sale, aceto. Si versa la marinata sui carciofi e si lascia circa un’ora a prendere gusto”. Diviene difficile capire se a Lerici si vengano a trovare tre diversi valori semantici sulla voce “carpione”, cioè il pesce di lago, il modo di cucinare il pesce in marinatura e il promontorio, oppure se ne debbano accreditare soltanto due, cioè il modo medioevale di cucinare il pesce e il promontorio. Sembra infatti che il termine sia da accreditare alla tradizione della pesca nei laghi perché lo si trova trattato ampiamente nel grande “Libro De arte Coquinaria” di Maestro Martino da Como, scritto attorno al 1450, mentre il grande maestro cuoco era al servizio del Patriarca di Aquileia Lodovico Trevisani (1401-1465), uomo potentissimo , amante dei piaceri della tavola e del letto. Nel “Capitolo Sexto per cocer ogni pesce” alla voce “Carpioni” (cioè pesci di acqua dolce) si legge: “Habbi una salimora a quello modo che si fa quelli deli altri pesci salati & subito che prendi il carpione così fresco gli buttirai dentro lasciandolo stare per doi dì nella ditta salimora & poi lo si fa frigere in bono olio assai e che sia ben cotto & a questo modo poterai conservare li ditti carpioni per vinti dì & anco per un mese & più”. Ed ancora, nel punto su come si cucinano le trote si legge: “Carpionar trutte al modo di Carpioni”, cioè una cottura di trote alla stessa maniera dei carpioni. Si presenta qui il verbo “carpionare”, cioè cucinare alla maniera di come si cucinano i pesci che si pescano nei laghi. Finora non si è rinvenuta nessuna documentazione storica che permetta di affermare che il termine di cucina medioevale sia stato coniato da pescatori della nostra terra, o meglio più propriamente di Barbazano o di Lerici o di Ameglia e, che ancora prima del 1450, abbiano diffuso il modo di cucinare medioevale come riferibile ai marinai ed ai pescatori del promontorio, pronunciato con il rotacismo. Ed è qui che inizia la diffidenza di coloro che credono che il nome non sia mai cambiato per effetto del rotacismo, cioè che non esistesse il nome originario di Caprione. Debbo confessare che anch’io, prima di iniziare lo studio dei documenti storici, non credevo all’originalità del toponimo Caprione, sebbene Francesco Poggi lo avesse già definito così alla nota 19 della pagina 47 del primo volume di “Lerici e il suo castello”. Il Canonico Gonetta, alla pagina 211 del manoscritto inedito “Storia di Lunigiana” cita entrambe le voci, cioè Carpione o Caprione. Il Targioni-Tozzetti, nel Libro XI della sua opera monumentale “Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa” scrive “il promontorio Lunense, chiamato volgarmente Caprione”, ed anche Gabriele D’Annunzio così formula il suo verso “la città forte dietro il Caprione”, Dalle Laudi, libro IV, Alcione – Il Commiato, e si capisce meglio ciò se si considera che egli frequentava la Versilia. Nel “Registrum Vetus “ di Geo Pistarino, in un atto dell’8 Settembre 1196, vengono citati i “montes de Capriono”, così come nel gran diploma fredericiano del 1185 del “Codice Pelavicino” viene citato il “montem de Caprione”, termine che si trova anche nel diploma di Enrico VI. Ancora nel “Codice Pelavicino”, in un atto del 18 Ottobre 1124, si legge “quod est in monte qui vocatur Caprione”. In numerosi altri atti ove vengono citati i boschi del Caprione, spesso oggetto di contese con i Sarzanesi, si legge “in nemoribus Caprioni”, mentre in un solo atto si legge “in nemoribus Carponi” . Negli “Statuti di Trebiano” del 1410 si legge “Carpiono”, si assiste cioè ad un inizio di rotacismo, ma non vi è alcun dubbio che il nome più antico abbia avuto la radice <capr> e non la radice <carp>. La ricerca dell’etimologia va quindi guidata verso le più antiche popolazioni del territorio, cioè i Liguri, i Celti, gli Etruschi, nonché i Paleo-umbri, cioè le popolazioni che fuggirono dal Mar Nero quando questo fu invaso dalle acque del mare, a causa dello scioglimento dei ghiacci che avevano prima ricoperto tutto l’emisfero settentrionale. Plinio afferma che “la gente umbra è considerata la più antica d’Italia, tanto che si ritiene che fossero chiamati ‘Ombrioi’ dai Greci per essere sopravvissuti alle piogge dopo il diluvio. Troviamo che trecento delle loro cittadelle fortificate furono sconfitte dagli Etruschi” (cfr. ITALIA Omnium terrarum alumna – Gli Umbri, di Francesco Roncalli, Garzanti-Scheiwiller, 1988). Il prof. Ennio Silvestri spiega l’etimologia come “cao + prion”, cioè “capo del monte, capo del promontorio” nel libro “Ameglia nella Storia della Lunigiana”, ma mancano le basi antiche per questa affermazione. Nella grande enciclopedia tedesca di Pauly-Wissova, si rinviene nell’appendice S VIII il termine “Kaprion” come un castello dell’Etruria interessato alle battaglie fra Sanniti e Romani, citato anche da Livio IX 41 e da Diodoro Siculo XX 44 in relazione ai Volsini. Si può quindi capire quale sia la radice <kapr> nei popoli più antichi dell’Italia centrale, escludendo il termine greco “kaprion” che indica il cinghiale, non essendo la lingua greca diffusa nell’interno dell’Italia Centrale. Nella lingua etrusca si rinviene il termine “capra”, urna, tomba, ma nel Caprione non sembra vi siano tombe etrusche, perché la necropoli del Cafaggio è attribuita ai Liguri. Nella lingua umbra si rivengono i termini kabru – kapru – kaprum che indicano il “capro”, animale che veniva sacrificato alla divinità Giovepadre, purché sopranno. Si ritiene che questa sia la radice piena del toponimo, che oltretutto è assai simile al latino caprum e che così si è perpetuata fino ai nostri giorni in un sistema duplice di toponimi diffusi simmetricamente sia nell’Alta Valle del Magra, sia nella Media Valle e sia nella Bassa Valle. Nel Pontremolese esiste la tradizione dialettale di un ”caprio ded qua” e di un “caprio ded là” che si riconoscono nel Caprio della sinistra idraulica e nel Teglia della destra idraulica, in quanto la teglia, cioè l’utensile di cucina, deriva dalla voce greca teleion, cioè la divinità, cioè il sacrificio che si poteva bruciare alla divinità sotto la “teccia”, cioè sotto il riparo di roccia. La teglia infatti si ritrova fra gli utensili di cucina derivanti dalle offerte sacre, quali casserola e padella. Casserola è legata al culto fallico “catzum + ara + Hola”, divinità femminile delle Tavole di Gubbio. Sul torrente Casirola della Val di Vara è stata trovata la prima delle statue stele, nel 1821. Padella è la derivazione dello strumento rotondo con cui porgere le offerte alla divinità Padellar delle Tavole di Gubbio, corrispondente alla divinità della fertilità e alla Giunone dei Romani. Ancora oggi, nell’Italia in cui sono vissuti gli Umbri, si riscontrano oltre trentacinque denominazioni di Piazza Padella o “già Piazza Padella”, secondo il seguente sincretismo: divinità - offerta alla divinità – strumento rotondo per presentare l’offerta alla divinità – luogo in cui si offre l’offerta alla divinità – permanenza della memoria dell’evento nella gastronomia e nella cucina. Prova di questa sequenza ci è fornita dai modi di dire “bella come il culo della Padella” – “basae er cuo aa Vecia” (la Vecchia è la Dea Madre, sia presso di noi sia nel Massiccio Centrale di Francia) – bajà u cù aa Maimunna (cioè la Mater Magna dei Latini). Nella Media Valle, in destra idraulica, si rinviene Capria, mentre in sinistra idraulica si rinviene Caprigliola. Nella Bassa Valle, in sinistra idraulica, si rinvengono i due toponimi simili Caprignano (Castelnuovo Magra ) e Caprognano (Fosdinovo), mentre in destra idraulica si trova il nostro Caprione. Una simile contrapposizione di luoghi contrapposti di offerte, rivolti al sorgere e al tramonto del Sole, si ritrova in Val Camonica, con i due toponimi Pescarzo, dialettalmente pescars, derivazione perfetta da persklum + arsie, cioè la pietra altare su cui si fa il fuoco, secondo l’etimologia umbra. In termini di figure di geografia sacra va ricordato che il culmine del Monte Caprione, con le due alture del Monte Capri di Beverino e del Monte Capri delle Cinque Terre, forma il vertice di un triangolo la cui bisettrice corrisponde all’azimuth del tramonto del Sole al Solstizio d’estate, come avviene in India, nel sito di Bharatkupa. Con lo stesso azimuth, nel sito di San Lorenzo al Caprione, si forma la farfalla dorata al tramonto, per il periodo che va dall’ultima decade di Maggio (il giorno dipende dal crescere della vegetazione ad ogni primavera) fino al 26 Luglio.